Biennale d’Arte di Venezia 2019, Mostra ai Giardini, Italia

La 58a mostra d’arte internazionale, intitolata May You Live In Interesting Times, diretta da Ralph Rugoff, si è svolta dall’11 maggio al 24 novembre 2019. Il titolo è una frase dell’invenzione inglese che è stata a lungo erroneamente citata come un’antica maledizione cinese che invoca periodi di incertezza, crisi e tumulto; “tempi interessanti”, esattamente come quelli in cui viviamo oggi.

La mostra è, come sempre, allestita nelle due principali sedi storiche, i Giardini di Castello e l’Arsenale, ma coinvolge anche sedi prestigiose di tutta Venezia, dove sono ospitati i rappresentanti di molte nazioni e dove vengono allestite mostre ed eventi collaterali. Tutti i futuri del mondo formano un percorso espositivo ampio e unitario che si articola dal Padiglione Centrale dei Giardini all’Arsenale, comprendendo le partecipazioni di 79 Paesi e regioni.

Il titolo di questa Mostra l’espressione “tempi interessanti” evoca l’idea di tempi impegnativi o addirittura “minacciosi”, ma potrebbe anche essere semplicemente un invito a vedere e considerare sempre il corso delle vicende umane nella loro complessità, un invito, quindi, che appare particolarmente importante in tempi in cui, troppo spesso, sembra prevalere l’eccessiva semplificazione, generata dal conformismo o dalla paura.

May You Live in Interesting Times, include opere d’arte che riflettono sugli aspetti precari dell’esistenza odierna, comprese le diverse minacce alle tradizioni chiave, alle istituzioni e alle relazioni dell'”ordine del dopoguerra”. Ma ammettiamo subito che l’arte non esercita le sue forze nel campo della politica. L’arte non può arginare l’ascesa di movimenti nazionalisti e governi autoritari in diverse parti del mondo, ad esempio, né può alleviare il tragico destino dei popoli sfollati in tutto il mondo.

La 58a Esposizione Internazionale d’Arte mette in evidenza un approccio generale al fare arte e una visione della funzione sociale dell’arte come abbracciando sia il piacere che il pensiero critico. La mostra si concentra sul lavoro di artisti che sfidano le abitudini di pensiero esistenti e aprono le nostre letture di oggetti e immagini, gesti e situazioni.

L’arte di questo tipo nasce da una pratica di intrattenere prospettive multiple: di tenere a mente nozioni apparentemente contraddittorie e incompatibili e di destreggiarsi tra diversi modi di dare un senso al mondo. Gli artisti che pensano in questo modo offrono alternative al significato dei cosiddetti fatti suggerendo altri modi per collegarli e contestualizzarli. Animati da curiosità sconfinata e arguzia pungente, il loro lavoro ci incoraggia a guardare con sospetto a tutte le categorie, concetti e soggettività indiscussi.

Una mostra d’arte merita la nostra attenzione, prima di tutto, se intende presentarci con l’arte e gli artisti come una sfida decisiva a tutti gli atteggiamenti troppo semplificatori. In modo indiretto, forse l’arte può essere una sorta di guida su come vivere e pensare in “tempi interessanti”. Ci invita a considerare molteplici alternative e punti di vista sconosciuti, ea discernere i modi in cui “ordine” è diventato la presenza simultanea di ordini diversi.

La Mostra ai Giardini
La Mostra si sviluppa dal Padiglione Centrale (Giardini) all’Arsenale e comprende 79 partecipanti provenienti da tutto il mondo. Sede tradizionale delle Esposizioni d’Arte della Biennale fin dalla prima edizione nel 1895, i Giardini sorgono all’estremità orientale di Venezia e furono realizzati da Napoleone all’inizio dell’Ottocento. Fu il successo delle prime edizioni (più di 200.000 visitatori nel 1895, più di 300.000 nel 1899) a innescare dal 1907 la costruzione di padiglioni esteri, che si aggiungevano al già costruito Padiglione Centrale. I Giardini ospitano oggi 29 padiglioni di paesi esteri, alcuni dei quali progettati da famosi architetti come il Padiglione Austriaco di Josef Hoffmann, il Padiglione Olandese di Gerrit Thomas Rietveld o il Padiglione Finlandese, un prefabbricato a pianta trapezoidale disegnato da Alvar Aalto.

As part of the exhibition reorganization of La Biennale venues, in 2009 the historic Central Pavillion at Giardini became a multifunctional and versatile structure of 3,500 square meters, the center of permanent activity and landmark for the other Gardens Pavilions. It houses interior spaces designed by internationally renowned artists such as Massimo Bartolini (Educational Area “Sala F”), Rirkrit Tiravanija (Bookstore) and Tobias Rehberger (Cafeteria).

La trasformazione del Padiglione Centrale in Giardini Polifunzionali è stata completata nel 2011 con la riorganizzazione degli spazi espositivi e dell’atrio d’ingresso. Da quel momento in poi, il Padiglione Centrale potrà godere di spazi e condizioni microclimatiche ottimali per ciascuna delle diverse e numerose destinazioni, tra attività didattiche, laboratori e progetti speciali. Una parte importante del progetto di recupero è consistita nel completamento del restauro della Sala Ottagonale, avviato dal Comune di Venezia nel 2006, con il restauro delle pitture all’interno della cupola di Galileo Chini nel 1909 e il restauro degli impianti decorativi parietali e pavimentali. Nella terrazza veneziana. La Sala, dotata di tutti i servizi per l’accoglienza del pubblico,diventa così un fulcro del Padiglione sotto forma di un atrio monumentale dal quale si accede a tutte le nuove aree funzionali.

Punti salienti

Parte IV

Lara Favaretto
La poliedrica pratica artistica di Lara Favaretto comprende scultura, installazione e azione performativa, ed è spesso espressa attraverso umorismo nero e irriverenza. Un esempio può essere trovato nella sua serie Momentary Monuments (2009-in corso), che non ha lo scopo di glorificare alcun evento storico, né di promuovere sentimenti di identificazione nazionale. I monumenti di Favaretto sono meno ideologici e più tragicomici, semplicemente marciscono, crollano e si dissolvono in modi diversi. Ciò rende lo sforzo tremendo di costruirli un monumento in sé, ma all’inutilità dell’attività umana. Lo scherzo implicito nel lavoro di Favaretto è che anche gli oggetti fatti dei materiali più stabili, destinati a congelare per sempre valori e ideologie, alla fine scompaiono.

Antoine Catala
Antoine Catala crea relazioni nuove e giocose tra linguaggio e realtà. Esplorando i problemi di comunicazione, cerca di portare alla luce alcuni dei modi in cui il significato viene trasmesso tramite parole, segni, testi, emoji, in particolare attraverso le piattaforme di comunicazione. Attraverso le sue opere di testo e le installazioni scultoree, attira l’attenzione su come, spesso senza pensarci, il modo in cui il messaggio viene trasmesso, piuttosto che il messaggio stesso, influenzi noi.

All’ingresso del Padiglione Centrale nove grandi pannelli rivestiti in silicone colorato costituiscono l’opera It’s Over (2019). Man mano che l’aria viene pompata fuori lentamente da ogni pannello, viene rivelato un testo in rilievo, che trasmette messaggi ambiguamente rassicuranti: “Non preoccuparti”, “È finita”, “È tutto ok”, “Tutto va bene”, “Ehi, rilassati” , o l’immagine di due orsacchiotti che si baciano. In Arsenale l’installazione The Heart Atrophies (2018-2019) propone l’equivalente contemporaneo di un rebus medievale, mostrando come gli esseri umani siano sempre stati in stretta, adattiva, flessibile relazione con i segni che li circondano.

Maria Loboda
La continua trasformazione di oggetti e immagini attraverso le loro traiettorie di trasmissione e incontro è al centro della pratica di Maria Loboda. Le opere di Loboda provocano sfiducia in ciò che si suppone evidente, ma ci invitano anche a fare amicizia con le incertezze che loro – e le cose da cui siamo circondati – possiedono. Loboda è interessato al modo in cui le immagini sono influenzate dai contesti in cui circolano, plasmate dalla storia degli sguardi su di esse.

Ryoji Ikeda
La pratica del compositore e artista Ryoji Ikeda si avvicina al minimalismo monumentale, spesso intrecciando composizioni acustiche sparse con elementi visivi che assumono la forma di vasti campi di informazioni rese digitalmente. Questi si integrano per formare il linguaggio espansivo dell’artista, che si basa su un modo di lavorare algoritmico in cui la matematica viene utilizzata come mezzo per catturare e riflettere il mondo naturale che ci circonda.

Haris Epaminonda
Haris Epaminonda lavora con materiali trovati come sculture, ceramiche, libri o fotografie, che spesso combina per costruire con cura le sue installazioni caratteristiche. Questi oggetti sono impigliati in una trama di significati storici e personali sconosciuti al pubblico e, probabilmente, anche a lei. Non è che lei ignori queste storie: sono implicite, esercitano il loro potere intrinsecamente, mentre si piegano dolcemente in qualcosa di diverso mentre si depositano nelle sue installazioni. Li sceglie per i loro qualia, le loro irriducibili qualità esperienziali, che li fanno risplendere e divenire visibili.

Nicole Eisenman
I riverberi tra lo storico e il presente, tra la pubblicità e la privacy forniscono la forza dietro i dipinti e le sculture di Nicole Eisenman. La sua antenna per le dinamiche della vita contemporanea la porta all’inesorabile verità che il mondo rimane pieno di uomini malvagi guidati dal potere, dall’ingordigia, dall’avarizia, dalla sete di sangue e dalla loro fede nel denaro come valore da tenere al di sopra di tutti gli altri.

Nelle sue opere scultoree, Eisenman rappresenta queste forze come mostruose, distorte e contorte, eviscerate e cancerose. Il suo fermo impegno per i dettagli del nostro momento, come si vede in opere come Weeks on the Train (2015), Morning Studio (2016) e Dark Light (2017), iPhone, jeans, felpe con cappuccio, laptop, cappellini da baseball e il l’uso delle casse del latte come mobili, la colloca saldamente nella venerabile tradizione del realismo e delle scene di genere: quadri dove la membrana che separa l’arte dalla vita è resa quanto più porosa possibile.

Augustas Serapinas
Augustas Serapinas interessato alla creazione di punti di vista alternativi, creano più diversità, che spesso manca nelle istituzioni e nel mondo dell’arte in generale… Ha un profondo rispetto per la creatività ‘make-do’, e il suo lavoro trova spesso commovente ispirazione nel quotidiano. Anche alla scuola d’arte nella sua nativa Vilnius, Serapinas si è spinto contro i confini istituzionali, trovando uno spazio nascosto all’interno dell’Accademia da utilizzare come studio segreto e creando un buco per se stesso in un tubo d’acqua cavernoso che sfocia nel fiume Vilnelė. Nel 2012, il suo ultimo anno all’Accademia delle Arti di Vilnius, ha notato un gruppo di bambini che usavano lo spazio pubblico circostante come area giochi e ha costruito strutture per l’arrampicata all’interno del suo studio da scoprire e incorporare nei loro giochi.

Cameron Jamie
Cameron Jamie ha prodotto lavori in diversi media, da fotografie e video a disegni, ceramiche, sculture e fanzine fotocopiate. L’opera che gli ha portato la più ampia attenzione nei primi anni della sua carriera è stata però Kranky Klaus (2002-2003), un video che documenta la tradizione natalizia alpina dei Krampuslauf. In un villaggio rurale austriaco, uomini vestiti da bestie cornute corrono per le strade di notte, presumibilmente alla ricerca di bambini e giovani donne che si dice siano state cattive. Le bestie Krampus è un rituale culturalmente sanzionato di coreografia.

Michael E. Smith
Un senso di ossessione post-umana pervade le sculture, le installazioni, i video e i dipinti occasionali di Michael E. Smith. L’artista utilizza tipicamente nelle sue opere i tipi di oggetti che si possono trovare in una discarica o, nella migliore delle ipotesi, in un negozio dell’usato; si tratta di manufatti che recano sulle loro superfici prove di essere stati usati, consumati e infine rotti dalle mani dell’uomo. Il fatto stesso di essere scartati li impregna di un mordente pathos, rivelandoli non amati, impotenti e consegnati a un purgatorio materiale in cui si rifiutano di degradarsi o scomparire. Altrove, veri animali morti (o parti di essi) entrano nel vocabolario scultoreo di Smith, quasi a sottolineare la qualità mortale degli oggetti artificiali con cui sono combinati.

Ad Minoliti
Per Ad Minoliti, la pittura metafisica è il simbolo dell’utopia modernista e di tutto ciò che in essa trovava riprovevole: la repressività della sua idealità, il conservatorismo delle sue strutture rigide, e persino la sua logica binaria implicita, in riferimento all’idea di Jacques Derrida che Il pensiero occidentale si fonda su opposizioni dualistiche come maschio-femmina, razionale-emotivo o natura-cultura. Il suo sforzo artistico è stato quello di creare uno spazio di rappresentazione alternativo per contrastare questa posizione modernista. Ha trovato un dialettico alter-omologo dello spazio della pittura metafisica nel mondo immaginario della casa delle bambole.

Invenzione del XVII secolo, la casa delle bambole è stata inizialmente creata come strumento pedagogico per istruire le ragazze sui loro ruoli di casalinghe, governanti, allevatori di figli e sostenitori del marito – e i ragazzi sull’accettazione di questa divisione e filosofia del lavoro . Minoliti si appropria dell’estetica della casa delle bambole e dei suoi oggetti di scena, la combina con l’immaginario modernista che fa eco a Kandinsky, Picasso o Matisse, e poi la smonta, la torce, la sposta e la riconfigura di nuovo.

Jon Rafman
Nei movimenti modernisti, ha osservato Jon Rafman, prevalevano visioni utopiche del futuro. La visione postmoderna tardo-capitalista, tuttavia, è diventata distopica. Per esplorare questo cambiamento nelle nozioni di futuro, il lavoro di Rafman utilizza l’immagine in movimento e la grafica generata al computer, rifuggendo il roseo ottimismo a volte associato alle nuove tecnologie.

Arthur Jafa
Per tre decenni Arthur Jafa ha sviluppato una pratica dinamica attraverso mezzi come film, scultura e performance. Durante la sua carriera, è stato investito in modalità espressive specificamente nere e nella sfida di come rendere il mondo (visualmente, concettualmente, culturalmente, idiomaticamente) dal vantaggio dell’essere nero – in tutta la sua gioia, orrore, bellezza, dolore, virtuosismo, alienazione, potere e magia. Jafa raccoglie immagini basate sulla rete, fotografie storiche, ritratti vernacolari, video musicali, meme e filmati di notizie virali per evidenziare l’assurdità e la necessità delle immagini nell’apprensione della razza.

Neil Beloufa
Neil Beloufa – la cui pratica spazia dal cinema, alla scultura e alle installazioni, ha trascorso la maggior parte dell’ultimo decennio a pensare a cosa c’è in gioco quando si comprende la realtà e la sua rappresentazione. La sua pratica si rifiuta di adottare qualsiasi posizione di autorità; è sia acuto nell’osservazione che discreto in ciò che trasmette.

L’artista si allontana costantemente dalle sue proposte come per dire allo spettatore: ‘Questo è il tuo problema ora, te ne occupi tu’. Ad esempio, per guardare i video di Global Agreement (2018-2019), lo spettatore deve sedersi su strutture che ricordano le attrezzature da palestra, che sono scomode e limitano i loro movimenti; contemporaneamente, la configurazione dello spazio fa sì che ogni spettatore possa osservare tutti gli altri osservando gli altri: forse stai guardando il video, ma qualcuno sta sempre guardando te.

Zhanna Kadyrova
Uno degli aspetti più sorprendenti dell’arte di Zhanna Kadyrova, che include fotografia, video, scultura, performance e installazione, è la sua sperimentazione con forme, materiali e significato. Usa spesso piastrelle economiche per il mosaico, combinate con materiali da costruzione pesanti come cemento e cemento.

La versione di Second Hand (2014-in corso) in mostra al Padiglione Centrale riutilizza le piastrelle di ceramica di un albergo di Venezia per realizzare capi di abbigliamento e biancheria. Per Market (2017-in corso, esposto in Arsenale), chiosco gastronomico dotato di tutto ciò di cui ha bisogno un ambulante, produce salsicce e salami in cemento e pietra naturale, e modella frutta e verdura, banane, angurie, melograni, melanzane, in mosaico grosso.

Ian Cheng
Ian Cheng utilizza tecniche di programmazione per computer per creare ambienti di vita definiti dalle loro capacità di mutare ed evolvere. Stava sviluppando “simulazioni dal vivo”, ecosistemi virtuali viventi che iniziano con proprietà programmate di base ma vengono lasciati evolvere da soli senza controllo o fine autoriale. È un formato per esercitare deliberatamente i sentimenti di confusione, ansia e dissonanza cognitiva che accompagnano l’esperienza del cambiamento inesorabile.

L’ultima creatura di Cheng, BOB (Bag of Beliefs) (2018-2019), presentata al Padiglione Centrale, è una forma di AI (intelligenza artificiale) la cui personalità, valori e corpo – che ricorda un serpente o un corallo – sono in continua crescita . I modelli comportamentali e il copione di vita di BOB sono alimentati dalle interazioni con gli umani, che sono in grado di influenzare le azioni di BOB tramite un’app iOS. Life After BOB: First Tract (2019), presentato in Arsenale, opera come una sorta di “anteprima” di un universo narrativo incentrato su BOB.

Nairy Baghramian
Nairy Baghramian fonde forme meccaniche e antropomorfe per creare oggetti scultorei sconcertanti. Il suo lavoro immagina la scultura come una creatura ibrida. Né completamente meccanici né completamente corporei, gli oggetti di Baghramian sono difficili da definire. Dwindlers, una serie di appendici in vetro esposte lungo il corridoio esterno dell’Arsenale, costringe alla domanda: “Che cosa stiamo guardando? Un insieme di condotti di ventilazione danneggiati o intestini mostruosi? Ornamenti decorativi o una struttura in rovina?”.

Nel Padiglione Centrale, mostra Maintainers (2019), un collage di elementi scultorei interdipendenti in raggruppamenti strettamente assemblati (alluminio fuso grezzo pressato contro forme di cera sostenute da una barra di sughero e bretelle laccate). Solido e ostinato, il collage di forme anima una tensione dinamica tra supporto materico e attacco – senza le bretelle di sughero e lacca l’opera potrebbe potenzialmente crollare.

Julie Mehretu
Le tele precedenti di Julie Mehretu facevano riferimento a mappe, diagrammi architettonici e griglie urbanistiche; l’artista ha utilizzato una serie di vettori e notazioni che indicavano la mobilità globale e le disuguaglianze globali. Sono vertiginosamente complessi e magistrali nel loro uso della scala e dello spazio negativo; trasmettono una sensazione di velocità. Nei suoi ultimi dipinti abbraccia un diverso tipo di disorientamento, producendo opere in cui si aggiungono e cancellano tratti aerografati ed elementi serigrafati, evocando un senso di dissipazione e smarrimento. Sebbene i dettagli delle pitture di fondo non siano più disponibili allo spettatore come informazioni pittoriche, questa fonte di immagini ha ancora la capacità di registrarsi a livello emotivo, dando il tono al dipinto completato.

Henry Taylor
Descrivendo la sua pratica pittorica come “vorace”, Henry Taylor popola il suo lavoro con un’enorme diversità di soggetti, dagli indigenti agli abbaglianti di successo. Che si tratti di ritratti intimi di familiari e amici, o di scene di gruppo politicamente influenzate che uniscono geografie e storie diverse, l’obiettivo di Taylor è quello di ritrarre onestamente la realtà dell’esperienza nera e il funzionamento spesso iniquo della vita americana. Ma nonostante il suo occhio acuto per l’ingiustizia e la frequente incorporazione di riferimenti storico-artistici, le immagini di Taylor non sono pesanti; le loro forme audaci e i colori a blocchi sono immediati e catturano lo spettatore.

Jimmie Durham
Incorporando anche elementi di scrittura e performance, la pratica di Jimmie Durham spesso assume la forma di sculture in cui diversi oggetti di uso quotidiano e materiali naturali sono assemblati in forme vivide. Il processo di produzione, ciò che Durham definisce “combinazioni illegali con oggetti rifiutati”, può essere visto come un’incarnazione dell’atteggiamento sovversivo che pervade le sue opere.

Nel Padiglione Centrale Durham mette in mostra Black Serpentine, una grande lastra di roccia omonima circondata da un telaio in acciaio inossidabile: una massa di mezza tonnellata ribelle nella sua implacabile forza d’animo. Nell’Arsenale ogni scultura, formata da combinazioni di parti di mobili, materiali industriali lucidi o abiti usati, si avvicina alla scala dell’animale titolare, eppure le forme risultanti non sono ritratti degli esseri, ma piuttosto intrecci poetici che sfidano la tradizionale nozione illuministica di la separazione tra uomo e natura.

Rula Halawani
Le immagini spettrali di Rula Halawani catturano le conseguenze delle periodiche violenze che hanno trasformato il suo paese in una zona di guerra. Attingendo sia al suo background di fotoreporter sia ai suoi ricordi della vita sotto l’occupazione israeliana, Halawani cerca in un paesaggio ormai sconosciuto le tracce sbiadite della Palestina storica. Attraverso il mezzo della fotografia, le implicazioni spaziali dell’occupazione si riflettono non solo attraverso la rappresentazione di strutture politiche nell’ambiente costruito, ma più distintamente nel vuoto di spazi negativi e illusioni oscure.

Soham Gupta
Nei suoi ritratti spettrali, Soham Gupta fa luce sulla vita notturna di Calcutta, rivelando come vivono alcuni degli abitanti più vulnerabili della città. Nella sua serie Angst, seguiamo queste figure notturne mentre si muovono attraverso i mondi che abitano, diventando personaggi vividi nell’immaginazione del fotografo. Gupta pensa ai suoi ritratti come il risultato di un processo collaborativo, tratto da interazioni intime in cui lui e i suoi soggetti si confidano l’uno con l’altro. Il fotografo ha un’affinità istintiva con coloro che esistono ai margini della società; cammina in mezzo a loro, identificandosi con i loro dolori e le loro lotte.

Dopo aver trascorso del tempo con ogni soggetto, Gupta fa resoconti biografici delle loro storie. Le fotografie di Gupta infondono a chi non ha potere un’azione espressiva. Più che una documentazione di una città e della sua gente, le fotografie sono l’espressione di uno stato psicologico radicato in qualcosa di più essenziale. Un senso di vulnerabilità e solitudine è punteggiato da momenti di gioia e spontaneità. Mentre le grida e i dolori dell’agonia possono essere messi a tacere dall’immagine fotografica, le fotografie di Gupta esprimono vividamente le varie sfumature dell’umanità che possono essere viste solo durante la notte.

Lee Bul
Cresciuta come figlia di attivisti di sinistra durante la dittatura militare della Corea del Sud, Lee Bul ha sperimentato gli effetti di un regime repressivo in un paese in rapida trasformazione economica e culturale. I suoi primi lavori, risalenti alla fine degli anni ’80, erano spettacoli di strada per i quali realizzava e indossava mostruosi costumi di “scultura morbida” addobbati con sporgenze e viscere penzolanti. Queste sono state seguite dalle sue sculture Cyborg in corpi femminili trasformati in macchine, formando ibridi incompleti privi di teste e arti. A loro volta, l’hanno portata a esplorare idee di paesaggi urbani futuristici ispirati ai sogni, agli ideali e alle utopie concepite nei manga e negli anime giapponesi, nella bioingegneria e nell’architettura visionaria di Bruno Taut (1880-1938).

Lara Favaretto
La poliedrica pratica artistica di Lara Favaretto comprende scultura, installazione e azione performativa, ed è spesso espressa attraverso umorismo nero e irriverenza. Un esempio può essere trovato nella sua serie Momentary Monuments (2009-in corso), che non ha lo scopo di glorificare alcun evento storico, né di promuovere sentimenti di identificazione nazionale. I monumenti di Favaretto sono meno ideologici e più tragicomici: semplicemente marciscono, crollano e si dissolvono in modi diversi. Ciò rende lo sforzo tremendo di costruirli un monumento in sé, ma all’inutilità dell’attività umana. Lo scherzo implicito nel lavoro di Favaretto è che anche gli oggetti fatti dei materiali più stabili, destinati a congelare per sempre valori e ideologie, alla fine scompaiono.

Lawrence Abu Hamdan
Descrivendosi come un “orecchio privato”, Lawrence Abu Hamdan si concentra sulla politica dell’ascolto, sull’impatto legale e religioso del suono, sulla voce umana e sul silenzio. La sua pratica nasce da un background nella musica fai-da-te, ma attualmente spazia tra film, installazioni audiovisive e saggi audio dal vivo, termine che preferisce a “lecture-performance”, poiché descrive meglio l’intreccio tra voce e contenuto, e del discorso e le condizioni in cui viene pronunciato. Si occupa della voce umana come materiale politicizzato, facilmente afferrabile da governi o società di dati.

Parte V

Teresa Margolles
Teresa Margolles allena un obiettivo femminista sulle brutalità della narcoviolenza che pervadono il suo paese natale, il Messico. Avendo studiato medicina legale e co-fondato il collettivo di artisti ispirati al death metal SEMEFO, Margolles ha durante la sua pratica tematizzata la negligenza governativa, il costo sociale ed economico della criminalizzazione delle droghe e le trame, gli odori e i resti fisici specifici.

Sun Yuan e Peng Yu
La coppia di artisti Sun Yuan e Peng Yu ha iniziato la loro collaborazione nel 2000. Nel 2009 hanno creato l’installazione Sun Yuan Peng Yu, un autoritratto che descrive la relazione e la dinamica della loro alleanza artistica. Un cerchio di fumo ricorrente veniva disperso con insistenza da una scopa azionata da un braccio meccanico che continuava a spazzare nell’aria; il fumo ricompariva con insistenza, solo per dissolversi quando la scopa colpiva di nuovo.

Per Sun e Peng, il momento dell’incontro tra le due componenti, e la dissoluzione dell’una dall’altra, simboleggiava un momento di creazione artistica congiunta nel loro modo di lavorare. Quasi tutte le installazioni di Sun Yuan e Peng Yu sono volte a sollecitare meraviglie e tensione dagli spettatori. L’atto del guardare da parte degli spettatori è un elemento costitutivo dei loro lavori recenti, che spesso comportano l’allestimento di spettacoli intimidatori.

Christian Marclay
Le opere di Christian Marclay sono fatte di oggetti, immagini e suoni che già esistono, di cui si appropria e manipola. Le sue esplorazioni nel rapporto tra suono e immagine lo hanno portato ad applicare tecniche di campionamento ai film di Hollywood. Ha creato montaggi di clip per formare nuove narrazioni e proiezioni su più schermi.

Ha usato oggetti, immagini e suoni trovati e li ha uniti insieme e ha cercato di creare qualcosa di nuovo e diverso con ciò che era disponibile. Essere totalmente originali e ricominciare da zero sembrava sempre inutile. Era più interessato a prendere qualcosa che esisteva e faceva parte di ciò che mi circondava, tagliarlo, torcerlo, trasformarlo in qualcosa di diverso; appropriarsene e farla sua attraverso manipolazioni e giustapposizioni.

Frida Orupabo
La preoccupazione centrale di Frida Orupabo è la rappresentazione del corpo femminile nero, soprattutto per quanto riguarda la circolazione delle immagini nella cultura dei media. Combina fotografie e immagini trovate dal suo archivio personale per creare collage digitali che esplorano temi di razza, genere, identità, sessualità, sguardo e violenza coloniale. Orupabo, artista autodidatta e sociologa di formazione, ha iniziato a caricare e trasmettere in streaming i suoi collage sulle piattaforme dei social media come mezzo per ottenere materiale di partenza e intervenire nel ciclo infinito di immagini che costruiscono il corpo femminile nero prodotto dalla storia dell’arte, colonialismo, scienza e cultura popolare.

Cyprien Gaillard
Facendo dell’entropia sia del creato dall’uomo che del naturale la sua preoccupazione centrale, Cyprien Gaillard esegue una critica acuta dell’idea di progresso attraverso i suoi video, sculture, fotografie, collage e arte pubblica. Osservatore nomade, Gaillard attraversa ambienti urbani e paesaggi naturali, alla ricerca di segni del tempo profondo incastonati nel suo ambiente. Porta all’interno frammenti del mondo esterno, formando giustapposizioni anacronistiche, combinando immagini di distruzione e ricostruzione, rinnovamento e degrado.

La pratica di Gaillard è un’archeologia visiva del decadimento, che si tratti dell’erosione delle forme fisiche o del significato sociale e storico. Spesso il tempo che collassa nelle sue opere, Gaillard combatte il romanticismo delle rovine, suggerendo uno sguardo disinteressato attraverso il quale i resti di eventi e luoghi possono essere compresi attraverso una cornice unificata del tempo ciclico.

Danh Vo
L’eclettico circolo di collaboratori di Danh Vo per la Biennale Arte 2019 include il suo ragazzo, suo nipote, suo padre e il suo ex professore. Nelle installazioni di Vo, la storia incontra la biografia dell’artista attraverso oggetti simbolici carichi come icone culturali o immagini religiose danneggiate, e il coinvolgimento letterale e metaforico dei suoi familiari e amici.

Slavi e tartari
Fondato nel 2006, Slavs and Tatars è iniziato come un club del libro e si è evoluto in un collettivo di artisti la cui pratica poliedrica è rimasta tuttavia molto vicina al linguaggio, sia in modo letterale che figurativo. Il loro lavoro, che spazia da sculture e installazioni a conferenze-performance e pubblicazioni, è un approccio di ricerca non convenzionale alla ricchezza e complessità culturale dell’area geografica racchiusa tra due barriere simboliche e fisiche: l’ex muro di Berlino e la Grande Muraglia cinese. Questa vasta terra è dove Oriente e Occidente si scontrano, fondendosi e ridefinendosi l’un l’altro.

Liu Wei
I primi lavori di Liu Wei si occupavano spesso di architettura urbana, paesaggi urbani e oggetti di uso quotidiano e rappresentavano vari aspetti del mondo fisico impiegando uno schema geometrico ricorrente nei dipinti e nelle installazioni. Negli ultimi due decenni, ha lavorato con un incredibile assortimento di materiali: dagli articoli da masticare per cani in pelle di bue ai libri, dai dispositivi elettronici domestici alle porcellane cinesi e ai materiali da costruzione di scarto. Le sue recenti installazioni su larga scala evocano la formalità e lo splendore delle scenografie moderniste, piene di forme e forme geometriche.

Apichatpong Weerasethakul
Le opere di Apichatpong Weerasethakul sono immerse nella vita sociale, nella cultura divergente e nella politica tumultuosa della sua nativa Thailandia, mentre le arene transitorie del sonno, del sogno e della memoria ricorrono come spazi per l’esplorazione, la liberazione e la sovversione silenziosa. Questi soggetti si intrecciano nel complesso gioco di luce, suono e schermo di Synchronicity (2018), realizzato con l’artista giapponese Tsuyoshi Hisakado (1981, Giappone) e presentato all’Arsenale, nel cui ambiente gli spazi di soglia di Weerasethakul prendono forma fisica.

Due opere nel Padiglione Centrale segnalano un cambiamento significativo per Weerasethakul, che per la prima volta ha lavorato fuori dalla Thailandia, in Colombia, per il suo attuale progetto Memoria. La topografia della Colombia e le sue cicatrici di decenni di guerra civile hanno un’affinità viscerale con Weerasethakul; i traumi della memoria collettiva fanno parte del tessuto della vita quotidiana, così come lo sono a Nabua.

Handiwirman Saputra
Negli ultimi dieci anni, Handiwirman Saputra ha creato una serie di sculture e dipinti enigmatici intitolati No Roots, No Shoots, innescati da oggetti casuali che ha trovato nella vita di tutti i giorni. L’impulso per alcune di queste opere era un tratto di fiume vicino a casa sua, dove le radici esposte di boschetti di bambù e alberi erano impigliate con i rifiuti domestici. Saputra era incuriosito non solo dalle cose che scopriva lì, ma anche dalle associazioni tra di loro.

Kemang Wa Lehulere
Il lavoro riccamente stratificato di Kemang Wa Lehulere incoraggia i visitatori a riunirsi intorno ad esso in una contemplazione condivisa. Questa nozione di collettivo è la chiave della pratica più ampia dell’artista: è diventato un artista verso la fine dei vent’anni, dopo molti anni di esperienza come attivista a Cape Town. Ha fondato Gugulective nel 2006, una piattaforma artistica per la performance e l’intervento sociale.

Sia le installazioni esposte in Arsenale che nel Padiglione Centrale sono realizzate con legno e metallo recuperati da banchi e sedie di scuola. Ogni elemento di queste opere si intreccia in una trama di associazioni, riferimenti e storie perché per Wa Lehulere, biografia personale e storia collettiva sono inestricabili.

Gauri Gill
Viaggiando più lontano, Gill vide nuove “colonie suburbane esistenti in una landa desolata di detriti, imitando i castelli inglesi con le case di fortuna dei lavoratori migranti che li circondavano”. Il suo Deadpan architettonico racchiude i cartelloni degli sviluppatori che vendono sogni irraggiungibili; mostre educative su edilizia e costruzioni; palme finte piantate tra alberi veri; una dea che presiede sopra un’unità di aria condizionata; un nuovo edificio, coperto da teli strappati, in procinto di essere demolito su Mahatma Gandhi Road; cumuli di spazzatura che marciscono lungo la Grand Trunk Road; e grattacieli anonimi, ovunque.

Michele Armitage
Situati da qualche parte tra una realtà fantastica e il caos politico della vita moderna, i dipinti di Michael Armitage intrecciano molteplici fili narrativi. Attento osservatore di complesse dinamiche sociali, sovverte i codici convenzionali di rappresentazione attraverso il linguaggio della pittura narrativa. Magnificando questioni di disuguaglianza e incertezza politica, la bellezza pittoresca dei suoi vividi tableaux smentisce una realtà sinistra in cui la collisione di dettagli sontuosi e colori vibranti fornisce uno spaccato dei costumi sociali e delle ideologie politiche che governano la vita quotidiana a Nairobi.

Jesse tesoro
Le sculture di Jesse Darling sono ferite, ombrose e instabili, ma sono anche piene di vita. Realizzati con materiali di uso quotidiano a basso costo, questi assemblaggi senza pretese evocano corpi con un’insolita intensità; sono anche decisamente non monumentali. Incapace di usare la maggior parte del braccio destro a causa di una malattia neurologica, Darling fu colpito dalle ideologie ereditate e dal machismo abilista che avevano inizialmente informato la loro comprensione della scultura: idee di “duro lavoro” e “gesto”.

Khyentse Norbu
Nel lavoro di Khyentse Norbu come artista e regista, le questioni filosofiche del contesto giocano un ruolo centrale. C’è un suggerimento che la comprensione e l’interpretazione siano sempre aperte al cambiamento e che ci sia spazio per una visione più ampia. Conosciuto nel mondo buddista come Dzongsar Khyentse Rinpoche, Norbu è un lama tibetano e bhutanese, rispettato per il suo insegnamento e la sua scrittura.

Alexandra Bircken
La pratica di Alexandra Bircken è costruita attorno alla forma umana. Le sue opere incorporano una gamma insolita di materiali, da manufatti come silicone, collant in nylon, armi e macchinari, a materiali organici tra cui lana, pelle, rami e frutta secca. Spogliati del loro antico scopo, questi sono assemblati in arrangiamenti straordinari e scomodi, ogni opera viva di tensioni opposte.

Nel Padiglione Centrale, Bircken presenta sei opere che intrecciano temi di genere, potere e vulnerabilità, animale e macchina. Sono opere che richiamano la nostra vulnerabilità, la nostra fisicità e gli strumenti arroganti che creiamo per proteggerci dall’esterno e gli uni dagli altri. All’Arsenale gli artisti esibiscono l’installazione viscerale, apocalittica e dinamica ESKALATION (2016), una visione distopica di come potrebbe essere la fine dell’umanità.

Nabuqi
Nabuqi è profondamente impegnato nell’esplorazione degli aspetti estetici e materiali degli oggetti scolpiti; per l’artista è importante che l’imitazione dell’esterno si realizzi attraverso un assemblaggio di manufatti le cui qualità originarie siano fedelmente conservate: “Volevo recuperare lo stato e le proprietà iniziali dei materiali, invece di comprometterli con le mie stesse mani. Il che significa non mostrare un’opera d’arte creata meticolosamente nello spazio espositivo.Volevo anche costruire un ambiente che riguardasse sia l’esterno (esterno) che l’interno (interno).

Tutti i materiali usati qui sono di natura decorativa, presumibilmente simulando o stimolando una sorta di realtà, o alimentando l’immaginazione di un’estetica: un’estetica virtuale, piacevole e ospitale”. Può una tale ricreazione della realtà essere percepita come parte della realtà, e innesca le stesse risonanze emotive nel pubblico come se avesse incontrato il reale?Le sue opere cercano di rispondere a queste domande.

Shilpa Gupta
Shilpa Gupta lavora intorno all’esistenza fisica e ideologica dei confini, rivelando le loro funzioni simultaneamente arbitrarie e repressive. La sua pratica attinge alle zone interstiziali tra stati nazionali, divisioni etno-religiose e strutture di sorveglianza – tra definizioni di legale e illegale, appartenenza e isolamento. Le situazioni quotidiane sono distillate in succinti gesti concettuali; come testo, azione, oggetto e installazione, attraverso cui Gupta affronta i poteri impercettibili che dettano la nostra vita di cittadini o apolidi.

Andra Ursuţa
Compulsioni ossessive e desideri violenti; sottomissione al dominio sessuale e politico; la fragilità dell’esistenza umana; identità come costruzione e finzione: sono questi alcuni dei temi che stanno alla base degli scenari nichilistici e tragicomici esplorati nelle sculture e installazioni di Andra Ursuţa. Incardinato sul paradosso e sull’ironia, il lavoro dell’artista attinge a vicende politiche, cliché e allegorie, oltre che a memorie personali, nel tentativo di esporre e stravolgere le dinamiche di potere che perpetuano i precari confini tra violazione e banalità, indifferenza ed empatia, abiezione e umorismo.

Christine e Margaret Wertheim
Crochet Coral Reef di Christine e Margaret Wertheim si trova a metà tra la scultura e un dispositivo per l’apprendimento, un modello botanico e biologico. Tali modelli tridimensionali un tempo erano realizzati in vetro; nel progetto dei Wertheim, le forme sono realizzate all’uncinetto. Filato, filo, filo metallico, vecchia videocassetta, perline, un punto sull’altro, tutti si combinano gradualmente per creare una serie di barriere coralline. Un’elegante alleanza di scienza e arte, la Crochet Coral Reef riflette la biografia dei gemelli: Margaret, di formazione fisica, è un’acclamata autrice di scienze; Christine, poeta ed ex pittrice, è professore di studi critici.

Una sera del 2005 nel soggiorno delle sorelle Wertheim, guardando le forme lanose sparse sul tavolino, Christine pronunciò le parole: “Potremmo lavorare all’uncinetto una barriera corallina!”. Margaret ha pubblicato un invito a partecipare al progetto online e nella posta hanno iniziato a comparire modelli piccoli e grandi, da combinare con le forme che le suore stavano realizzando. Ne è emersa una proposta espansiva: la Crochet Coral Reef come qualcosa che prende e rappresenta il tempo e l’immaginazione e la collaborazione non gerarchica. Ad oggi, più di 10.000 partecipanti hanno collettivamente lavorato all’uncinetto oltre quaranta Satellite Reef in diverse città e paesi.

Suki Seokyeong Kang
Incorporando pittura, scultura, video e ciò che l’artista ha descritto come “attivazione”, la pratica multivariata di Suki Seokyeong Kang è incentrata sul luogo e sul ruolo dell’individuo oggi. Kang attinge ad aspetti del patrimonio culturale coreano e alla sua storia personale per reimmaginare le strutture ideologiche e immaginare arene politicizzate in cui le parti interessate possono articolare ed esercitare la loro agenzia nello spazio-tempo del presente.

Otobong Nkanga
Facendo riferimento al movimento (spesso violento) e allo scambio di minerali, energia, merci e persone, il lavoro di Otobong Nkanga ricorda che gli oggetti e le azioni non esistono in isolamento: c’è sempre una connessione, sempre un impatto. “Nessuno di noi esiste in uno stato statico”, ha detto l’artista. “Le identità sono in continua evoluzione. Le identità africane sono molteplici. Quando guardo, ad esempio, alle culture nigeriana, senegalese, keniota, francese o indiana, non si può parlare di un’identità specifica senza parlare degli impatti coloniali e dell’impatto di questo scambio – del commercio e dei beni e della cultura”.

Alex Da Corte
Le opere immersive di Alex Da Corte testimoniano un atto di creazione magnetica del mondo. Coreografa una danza di oggetti che significano e implicano, senza essere quelle cose. Racconta storie attraverso codici e simboli, in cui un vortice di americani appropriati, assemblati, messi in scena e realizzati è infuso simultaneamente con riferimenti culturali di alto e basso livello e reperti di negozi di dollari.

Nel Padiglione Centrale, gli spettatori diventano giganti che guardano le persone vivere la loro vita tranquilla all’interno delle case di The Decorated Shed (2019), una replica esatta di un villaggio di periferia americano in miniatura – dalla popolare serie televisiva Mister Rogers’ Neighborhood – presentata su un Federal- tavolo in mogano in stile, con l’aggiunta della segnaletica della catena di ristoranti aziendali. Nell’Arsenale, il Diavolo con matita di gomma illuminato al neon, miniaturizza gli spettatori mentre si siedono sulle panchine e guardano versioni per adulti sovradimensionate e sovrasaturate di programmi TV familiari in cui una serie di personaggi esegue una coreografia ipnoticamente lenta.

Parte VI

Halil Altındere
Halil Altındere scruta la politica del quotidiano nei suoi video, fotografie, installazioni e dipinti. Attento osservatore dei meccanismi sociopolitici e della loro invasione dell’individuo, usa spesso i mezzi stessi con cui si afferma l’autorità e la differenza è circoscritta dalle istituzioni dello stato-nazione. Carte d’identità, francobolli, banconote, prime pagine di giornali, slogan militaristici e foto di leader politici sono appropriati per sovvertire la manipolazione e la normalizzazione sociale o politica.

Proveniente da un background curdo ed essendo cresciuto durante l’apice del conflitto turco-curdo, Altındere tocca l’abbandono e il maltrattamento delle minoranze in numerose opere. Negli ultimi anni, Altındere si è impegnato con la crisi globale dei rifugiati in molteplici opere, tra cui Space Refugee (2016), una serie ispirata all’incontro dell’artista con Muhammed Ahmed Faris, il primo e unico cosmonauta siriano, che ha viaggiato nello spazio con una squadra sovietica in 1987.

Yin Xiuzhen
Dall’inizio degli anni ’90, Yin Xiuzhen ha lavorato con materiali riciclati per creare sculture ambiziose cariche di riferimenti sociali. Riflettendo l’eccessivo sviluppo, il consumo e la globalizzazione che hanno in gran parte definito la Cina post-1989, nelle sue opere unisce tessuti morbidi a una serie di oggetti – spesso con trame e connotazioni drasticamente contrastanti – come valigie, frammenti di cemento, detriti, metalli e oggetti industriali.

Carol Bove
Carol Bove’s sculpture turns the clean lines of Modernism on its head. Her formal syntax is an adept language of bends, dents, torques, kinks, crumples, creases, and other folds that animate the sculptural surface. The artist has called these works “collage sculptures”, a type of activity that navigates a productive tension between the industrially formed and the merely found, between the obsolete and the newly minted.

L’attrito fisico del suo materiale è animato da un’audace tavolozza color caramella di rossi, gialli, rosa e verdi posti in contrasto dinamico con il suo ruvido acciaio non trattato. La finitura lucida dei suoi barattoli di vernice con la ruvida materialità sbiadita dei suoi oggetti trovati. In questa modalità, il colore della superficie promuove l’illusione che i suoi tubi d’acciaio siano costituiti da una sostanza morbida e malleabile. Le abili torsioni, pieghe e curve di Bove richiedono un approccio cinestetico da parte dello spettatore: costringono il corpo, l’occhio e la mente a spostare, spostare e circumnavigare l’opera. Se questi oggetti dovessero raccontare una storia sarebbe un racconto di movimento e pressione, forza e morbidezza.

Avery cantante
I dipinti di Avery Singer esplorano i limiti del mezzo. Invece di dipingere con i pennelli, usa invece SketchUp, un software di modellazione 3D popolare tra architetti e ingegneri, per creare composizioni digitali che vengono poi proiettate e aerografate su tela. Ritraendo volti neutri rispetto al genere e forme non sessualizzate, Singer evidenzia l’ambiguità dell’identità riducendo i tratti del viso a una serie di linee, griglie e forme geometriche.

Negli ultimi due anni, Singer ha introdotto il colore nella sua tavolozza di grisaglia. Il color caramella Calder (Saturday Night) (2017), insieme a un gruppo di dipinti che contrastano con le immagini tenui e semi-astratte in mostra nel Padiglione Centrale. Mentre gioca con i limiti della rappresentazione, la continua ricerca di Singer per espandere le possibilità della pittura combatte anche contro teorie e ipotesi riduttive sul genere degli artisti.

Njideka Akunyili Crosby
I dipinti di Njideka Akunyili Crosby riflettono la sua esperienza come membro della diaspora nigeriana contemporanea, raffigurando una specifica identità culturale e nazionale sconosciuta a molti, ma immediatamente riconoscibile a coloro che hanno seguito un percorso simile. Emigrata per studiare negli Stati Uniti da adolescente, Akunyili Crosby si muove con sicurezza (anche se forse non senza attriti interiorizzati) tra diversi contesti estetici, intellettuali, economici e politici, ed è la collisione e il disallineamento di questi contesti che dà ai suoi dipinti il ​​loro tensione e commozione.

L’artista dipinge ritratti e interni domestici che di solito raffigurano se stessa e la sua famiglia. Queste scene sono allo stesso tempo piatte e infinitamente profonde, con finestre e porte che si aprono su altri spazi, mentre gli spazi descritti in queste immagini sono indeterminati; alcuni dettagli – come un radiatore in ghisa, ad esempio – indicano un clima freddo (come New York, dove l’artista ha vissuto per un periodo), mentre altri, come una lampada a paraffina appoggiata su un tavolo, sono tratti dall’opera di Akunyili Crosby ricordi della Nigeria.

Anthony Hernandez
Il lavoro fotografico di Anthony Hernandez è duro e poco sentimentale. Negli ultimi tre decenni una domanda prevalente ha assillato il fotografo: come fotografare le rovine contemporanee della città e il duro impatto della vita urbana sui suoi cittadini meno avvantaggiati? Hernandez ha affrontato questa domanda concentrandosi su quelli che il fotografo Lewis Baltz ha chiamato “i paesaggi degli sconfitti”: campi per senzatetto, uffici di disoccupazione, autodemolizioni, pensiline degli autobus e altri spazi trascurati che si trovano alla periferia della città. Né romantico né nostalgico, il lavoro di Hernandez ha dettagliato i siti e gli spazi in cui la promessa di felicità del capitalismo si è inacidita.

Zanele Muholi
Conosciuto per il lavoro Faces and Phases (2006-in corso), un archivio in continua evoluzione di ritratti di lesbiche nere sudafricane, Zanele Muholi è un fotografo che lavora ferocemente contro il mutismo e l’invisibilità. Preferendo essere definito un “attivista visivo” piuttosto che un artista, Muholi è co-fondatore del Forum for the Empowerment of Women, così come Inkanyiso, una piattaforma per l’attivismo queer e visivo.

L’importanza dell’autorappresentazione è centrale in Somnyama Ngonyama, Hail the Dark Lioness (2012-in corso), una serie di autoritratti impenitenti che l’artista intende costruire in 365 immagini di un anno nella vita di una lesbica nera nel sud Africa. La serie comprende opere in cui l’artista incontra in modo provocatorio o diretto lo sguardo dello spettatore, in mostra all’Arsenale, e stampe più piccole alla gelatina d’argento in cui Muholi lo evita e lo frustra, in mostra al Padiglione Centrale.

Stan Douglas
I film, i video, le fotografie e le installazioni cinematografiche di Stan Douglas spesso riguardano quelle che lui chiama “storie speculative”, immaginando momenti cruciali in cui gli eventi avrebbero potuto prendere una piega molto diversa. Douglas considera le fotografie come “come i film senza immagini in movimento” e le crea più o meno allo stesso modo di una scena di un film. Rievoca eventi particolari, sottoponendoli a un lungo processo di ricerca prima di ricostruirli con scenografie, attori e luci meticolose.

Korakrit Arunanondchai
Lavorando tra performance, video e installazione, Korakrit Arunanondchai crea una zona in cui si intrecciano famiglia, superstizione, spiritualità, storia, politica e arte. La sua serie interconnessa con la storia in una stanza piena di persone con nomi divertenti è iniziata nel 2013. Il personaggio centrale ricorrente, un pittore thailandese immaginario, è raffigurato in situazioni che riflettono l’interazione tra credenze tradizionali, ambiente naturale e sviluppi nella tecnologia, politica e cultura di una Thailandia che cambia.

L’installazione scultorea presentata nel Padiglione Centrale è una serie di forme arboree ‘post-naturali’, mentre l’Arsenale ospita un’installazione a tre schermi realizzata con Alex Gvojic (1984, USA). Le gallerie si vestono come spazi di potenzialità e di incontro. Recentemente, ha costruito ambientazioni forestali inquietanti: l’habitat di creature simili a topi che potrebbero sopravvivere all’Antropocene.

Ed Atkins
Ed Atkins fa tutti i tipi di convoluzioni dell’autoritratto. Scrive profezie ellittiche e intime a disagio, disegna caricature orribili e realizza video realistici generati dal computer che spesso presentano figure maschili alle prese con crisi psichiche inspiegabili. In Arsenale, l’installazione Old Food (2017-2019) è intrisa di storicità, malinconia e stupidità. Qui, Atkins ha ampliato il suo terreno emo, temperando la figurazione autobiografica con problemi e citazioni più ampi.

I disegni che costituiscono Bloom (numerati da uno a dieci e mostrati nel Padiglione Centrale) mostrano tarantole che sbarcano mani incerte o comunque appollaiate su un piede in posa, ognuna con la testa rimpicciolita di Ed Atkins dove dovrebbe essere l’addome dei ragni. Avvolto in peli di aracnidi, il viso di Atkins rompe la quarta parete e ci fissa, con un’espressione ambivalente e di dubbia consapevolezza.

Gabriel Rico
In quanto collezionista di oggetti culturali scartati, autoproclamatosi ontologo, architetto esperto e ricercatore dell’esperienza umana con un’affinità per gli animali, si può dire che Gabriel Rico abbia “occhi affamati”. Le sue domande, esplorazioni e collezioni portano a un approccio post-surrealista / Arte povera che estrae una gamma di materiali, dalla tassidermia e oggetti naturali a forme al neon e altri resti di oggetti artificiali. Ciò si traduce in sculture stimolanti che affrontano il rapporto tra ambiente, architettura e le future rovine della civiltà.

In tutto il lavoro di Rico, la bellezza della storia si trova nei dettagli. I componenti riflettono le sfide che devono affrontare un luogo specifico, il Messico, e contemporaneamente risuonano con le nostre preoccupazioni globali condivise. Rico considera la fragilità dello spazio, sia formalmente che filosoficamente, presentando il momento precario che è adesso.

Anicka Yi
Demarcazioni destabilizzanti tra organico e sintetico, scienza e finzione, umano e non umano, le creazioni proteiformi di Anicka Yi sono sostenute da quella che l’artista descrive come la “biopolitica dei sensi”. Il nuovo corpo di lavoro di Yi è incentrato su recenti indagini sulla “biologizzazione della macchina” mentre si concentra sul sensorio della macchina e contempla come possono essere stabiliti nuovi canali di comunicazione tra entità di intelligenza artificiale (AI) e forme di vita organiche.

Kahlil Joseph
Navigando senza problemi nelle acque tra il mainstream e il museo, la pratica ibrida dell’artista e regista Kahlil Joseph abbraccia cinema, arte visiva e media culturali. I suoi film coinvolgenti e le sue installazioni video immersive rimescolano ogni dicotomia tra cultura alta e bassa, tra cinema e arte contemporanea.

Andreas Lolis
Andreas Lolis crea oggetti trompe-l’œil in marmo. Negli ultimi anni, ha creato una serie di sculture a pavimento che imitano gli oggetti effimeri che ha visto agli angoli delle strade o sulle panchine dei parchi: sacchetti della spazzatura iperreali, scatole di cartone e casse di legno. Molte di queste sculture presentano segni di apparente usura: le loro superfici sono schiacciate o macchiate, scheggiate o rotte. Riproducendo detriti in un mezzo alto-classico, disturba intenzionalmente i sistemi convenzionali di valore e status. Lolis, che ha lavorato esclusivamente con il marmo durante la sua carriera, ha descritto il suo rapporto con il materiale come devozionale. La sua intensa attenzione ai dettagli significa che ogni oggetto a grandezza naturale è in grado di ingannare quasi completamente l’occhio.

Tomás Saraceno
La ricerca di Tomás Saraceno si nutre di una miriade di mondi. La sua Arachnophilia Society, Aerocene Foundation, progetti comunitari e installazioni interattive esplorano modi sostenibili di abitare l’ambiente collegando discipline (arte, architettura, scienze naturali, astrofisica, filosofia, antropologia, ingegneria) e sensibilità.

In tutti questi progetti, Saraceno si confronta con le forme di vita che esistono intorno a noi e, in un’epoca di sconvolgimenti ecologici, ci incoraggia a sintonizzare le nostre prospettive con altre specie e sistemi, sia a livello micro che macro, dalle colonie di ragni alle onde e impegnarsi con modi ibridi e alternativi di abitare il nostro pianeta condiviso.

Maria Loboda
La continua trasformazione di oggetti e immagini attraverso le loro traiettorie di trasmissione e incontro è al centro della pratica di Maria Loboda. Le opere di Loboda provocano sfiducia in ciò che si suppone evidente, ma ci invitano anche a fare amicizia con le incertezze che loro – e le cose da cui siamo circondati – possiedono. Loboda è interessato al modo in cui le immagini sono influenzate dai contesti in cui circolano, plasmate dalla storia degli sguardi su di esse.

Tarek Atoui
Unendo musica e arte contemporanea, la pratica di Tarek Atoui espande le nozioni di ascolto attraverso performance sonore partecipative e collaborative. Influenzato dall’eredità di forme aperte presentate dagli artisti negli anni ’60, che hanno ampliato la comprensione della musica e l’hanno avvicinata al regno dell’arte visiva, Atoui concepisce e coordina ambienti complessi per coltivare il suono. Attraverso le sue installazioni, performance e collaborazioni, abbatte le nozioni attese di performance, sia per il performer che per il pubblico, suggerendo modi multimodali di esperienza: visiva, sonora e somatica.

Anthea Hamilton
Un senso di straniamento pervade l’opera di Anthea Hamilton. I riferimenti vintage della cultura popolare, della moda e del design si aprono in ambienti immersivi e oggetti misteriosi, i loro significati originali svuotati e trasformati all’interno delle sue sculture e installazioni. Le distanze temporali dall’arte e dalla cultura dei decenni passati possono trarre in inganno: il trascorrere del tempo può rendere certi riferimenti celebrativi, kitsch e persino neutri.

All’interno del lavoro di Hamilton, vengono riconsiderati gli elementi benigni della moda e del design. In lavori precedenti, ha preso in prestito da stilisti storici, celebrità e tendenze iconiche della moda per amplificarne le implicazioni e anche capovolgerle. Le provocazioni vengono prodotte attraverso la ripetizione e un dispiegamento di vuoto e superficie. I risultati sono quasi claustrofobici, opprimenti nei desideri che rivelano le trasformazioni di Hamilton.

Jeppe Hein
Le panchine sociali modificate di Jeppe Hein incoraggiano l’esplorazione e la sperimentazione attraverso una varietà di attività, dal gioco al riposo. Sono la controreazione a qualsiasi strumento architettonico che detti il ​​movimento dei corpi nello spazio. Per i Giardini, l’artista ha realizzato una serie di quattro panchine che sembrano spuntare dalle lagune ciano, volteggiando nell’aria come i binari di un trenino. Situate sul prato tra i padiglioni brasiliano, polacco e rumeno, le panchine sociali modificate per Venezia (2019) creano uno spazio per l’interazione sociale e invitano alla decelerazione.

Altre strutture

Padiglioni Nazionali ai Giardini
Accanto all’odierno Padiglione Centrale, il cui primo nucleo fu edificato nel 1894 e da allora più volte ampliato e restaurato, nel grande parco sono stati realizzati 29 padiglioni, realizzati in varie epoche dalle nazioni espositrici. Racchiusi nel verde del parco, i padiglioni rappresentano un’antologia di alto valore dell’architettura del XX secolo, a nome di molti dirigenti, tra cui Aalto, Hoffmann, Rietveld, Scarpa e Stirling.

Biblioteca della Biennale
La Biblioteca della Biennale dal 2009 è parte integrante del Padiglione Centrale ai Giardini. Il restauro si è concluso nel 2010 con l’apertura della grande sala lettura, circondata da un ballatoio a due livelli su cui sono disposti oltre 800 metri di scaffalature. La sala lettura è utilizzata anche per convegni e workshop.

La Biblioteca è specializzata in arte contemporanea, con particolare attenzione alla documentazione e all’approfondimento delle attività della Fondazione, conservando tutti i cataloghi delle attività della Biennale e raccogliendo materiale bibliografico relativo alle discipline dell’architettura, delle arti visive, del cinema, della danza, della fotografia, della musica, del teatro . Grazie al suo patrimonio librario di oltre 151.000 volumi e 3.000 periodici, è una delle principali biblioteche d’arte contemporanea in Italia.

Il patrimonio librario, originato dall’archivio librario ASAC, è in continuo sviluppo e aggiornamento attraverso acquisti, donazioni e, soprattutto, scambi con le principali istituzioni di produzione, ricerca e conservazione delle arti contemporanee, nazionali e internazionali. Dal 2009, attraverso il Padiglione del Libro, la Biblioteca accoglie e acquisisce anche volumi donati da artisti e architetti che partecipano a mostre d’arte e mostre di architettura. I libri raccolti grazie a questo progetto realizzato dalla Fondazione La Biennale sono il risultato di una collaborazione costante con i direttori della mostra di arte e architettura.

Libreria
Progettata dall’artista Rirkrit Tiravanija, la biblioteca dei Giardini è uno spazio piccolo e pratico, senza dettagli e decorazioni ridondanti.

Caffetteria
Progettata da Tobias Rehberger e dipinta secondo il particolare stile pittorico Razzle Dazzle (utilizzato soprattutto sulle navi da guerra durante la prima guerra mondiale), la caffetteria è un luogo dove sedersi per trovare un po’ di ristoro e dove lasciarsi (piacevolmente) disorientati da intreccia forme geometriche di colori contrastanti che si interrompono e si intersecano, creando un pattern optical complesso e vivace.

Un’opera d’arte da caffetteria, il cui progetto per la creazione di Was du liebst, bringt dich auch zum Weinen ha assegnato a Rehberger un Leone d’Oro per il miglior artista alla Biennale Arte 2009.

Biennale di Venezia 2019
La 58a Biennale di Venezia è stata una mostra internazionale di arte contemporanea tenutasi tra maggio e novembre 2019. La Biennale di Venezia si svolge ogni due anni a Venezia, in Italia. Il direttore artistico Ralph Rugoff ha curato la sua mostra centrale, May You Live in Interesting Times, e 90 paesi hanno contribuito con i padiglioni nazionali.

La Biennale di Venezia è una mostra biennale d’arte internazionale che si tiene a Venezia, in Italia. Spesso definita “le Olimpiadi del mondo dell’arte”, la partecipazione alla Biennale è un evento prestigioso per gli artisti contemporanei. Il festival è diventato una costellazione di spettacoli: una mostra centrale curata dal direttore artistico di quell’anno, padiglioni nazionali ospitati da singole nazioni e mostre indipendenti in tutta Venezia. L’organizzazione madre della Biennale ospita anche festival regolari in altre arti: architettura, danza, cinema, musica e teatro.

Outside of the central, international exhibition, individual nations produce their own shows, known as pavilions, as their national representation. Nations that own their pavilion buildings, such as the 30 housed on the Giardini, are responsible for their own upkeep and construction costs as well. Nations without dedicated buildings create pavilions in the Venice Arsenale and palazzos throughout the city.

La Biennale di Venezia è stata fondata nel 1895. Paolo Baratta ne è Presidente dal 2008, e prima ancora dal 1998 al 2001. La Biennale, che si pone in prima linea nella ricerca e promozione delle nuove tendenze dell’arte contemporanea, organizza mostre, festival e ricerche in tutti i suoi settori specifici: Arte (1895), Architettura (1980), Cinema (1932), Danza (1999), Musica (1930), Teatro (1934). La sua attività è documentata presso l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC) che recentemente è stato completamente rinnovato.

In tutti i settori si sono moltiplicate le opportunità di ricerca e produzione rivolte alle giovani generazioni di artisti, direttamente a contatto con docenti di chiara fama; questo è diventato più sistematico e continuo attraverso il progetto internazionale Biennale College, ora attivo nelle sezioni Danza, Teatro, Musica e Cinema.