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Mosaici bizantini della Sicilia

I mosaici bizantini della Sicilia sono un esempio dell’arte bizantina in Italia. Sebbene i bizantini avessero occupato la Sicilia dal 535 fino all’invasione islamica dell’isola nell’827 (sebbene l’ultima roccaforte Rometta capitolasse solo nel 965), furono i principi normanni, che consolidarono la conquista della Sicilia e proclamarono nel 1130 il Regno di Sicilia, approfittò degli operai bizantini (o della scuola bizantina) per i loro palazzi e le loro chiese.

È proprio con Ruggero II, e primo re, che le chiese di Palermo cominciarono a essere coperte di mosaici, e non esistevano in situ, ma ricorsero, come per molti altri eventi nel centro in quel momento più risonanti di prestigio, e con il quali rapporti di interscambio esistevano: cioè i mosaicisti di Costantinopoli.

I più antichi mosaici in Sicilia
L’arte bizantina, nelle sue forme più dignitose, è documentata – così come nei mosaici riemersi a Santa Sofia, nelle decorazioni delle chiese periferiche e nelle miniature – nel più antico nucleo di mosaici delle chiese siciliane: nella parte più antica (cupola e presbiterio)) dei mosaici della Cappella Palatina e in quelli che ricoprono la chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio di Palermo; in quelli che decorano l’abside del Duomo di Cefalù (il più classico tra i mosaici siciliani), su cui successivamente quelli dell’abside del Duomo di Monreale furono in seguito esemplari; infine nelle pareti (quelle del soffitto sono in seguito) della “Sala di Re Ruggero” nel Palazzo dei Normanni, e in quelle che decorano la volta a crociera sul bema nella cattedrale di Cefalù.

La decorazione di Monreale fu realizzata tra il 1180 e il 1190, anche se iconograficamente sembra essere in gran parte prefigurata dalla decorazione delle navate della Cappella Palatina, iniziata ai tempi di Guglielmo I, quando, in connessione con quanto accaduto in architettura, per la mediazione di la cultura campana, i pensieri e le vie occidentali cominciarono a minare il tessuto orientale (arabo e bizantino) dell’arte siciliana. È quindi testimone di un nuovo afflusso di lavoratori bizantini in Sicilia legato al tour della cultura sviluppato in età tarda-comnena. Il facile confronto tra le scene analoghe di due cicli corrispondenti (quelli, ad esempio, presi dall’Antico Testamento), dimostra che dai mosaici della Cappella Palatina a quelli della cattedrale di Monreale non c’è passaggio; eppure è assolutamente impossibile postulare, come ha giustamente notato Kissinger, una continuità nello sviluppo delle modalità stilistiche.

Rispetto ai modi ancora aulici e classici, anche negli accenti narrativi, dei mosaici della navata della Cappella Palatina, alla loro staticità ornamentale, così efficacemente secondaria al gioco melodico delle linee, le scene di Monreale sono caratterizzate da un movimento rapido e animato, servito dalla continua frammentazione della linea, dalla prominenza dei colori non più stabiliti in aree locali statiche e circoscritte; per un’inclusione più organica nelle vaste partiture architettoniche, in modo che queste ultime sembrino progettate per accogliere la decorazione musiva e valorizzarsi con i layout musivi, e la decorazione da inserire nell’architettura, e da quest’ultima al massimo valorizzato e reso evidente .

Questi modi, dal punto di vista formale, non hanno precedenti in Sicilia, ma li hanno nell’Oriente greco, dove tutto – dice Kitzinger – “un vasto gruppo di affreschi e mosaici sparsi in varie parti del mondo bizantino e lungo i suoi confini “(Macedonia, Bulgaria, Cappadocia …), presenta fenomeni stilistici sostanzialmente simili. Queste manifestazioni, per apparire contemporaneamente in una vasta area – fino alle principali lunette di Sant’Angelo in Formis e ai mosaici di Monreale – possono essere spiegate solo come l’irradiazione degli stati d’animo metropolitani. Tali umori, nei mosaici monreale, sono saldati a quelli della cultura campana, convalidando anche per questo aspetto il fenomeno che si sente nell’architettura, in un momento in cui nella corte di Palermo avevano posizioni di spicco come Romualdo Salernitano e Matteo Aiello, formato nella zona di Catania nel sud Italia.

Infatti, con il completamento della cattedrale di Monreale, l’architettura ha visto il declino delle antiche forme di ascendenza orientale, araba o bizantina e l’influenza delle forme campane, che si manifestano non solo nel recupero delle piante latine. ma anche, e soprattutto, nella vistosa decorazione colorata (archi intrecciati, dischi colorati, porte bronzee, arredi liturgici, ecc …), che decifra e trasfigura le antiche architetture composte su moduli di geometria speculare, dando una nuova, più ornato e animato, la struttura di nuovi edifici.

Limiti cronologici dei più antichi mosaici della Sicilia
L’attività dei maestri bizantini in Sicilia è ridotta in due momenti: la più antica è inclusa nel breve giro di poco più di un decennio. Infatti, l’iscrizione della fascia a mosaico che incornicia alla base della cupola della Cappella Palatina testimonia che la sua decorazione fu completata nel 1143; mentre i mosaici sottostanti e quelli che – ad eccezione delle absidi – adornano il presbiterio non scavalcano la data di morte di Ruggero, il febbraio del 1154. Ciò deriva da due testi di fondamentale importanza. La tanto discussa omelia dello pseudo Teofane Cerameo – recitata senz’altro alla presenza del re, in occasione della solenne festa degli apostoli Pietro e Paolo, a cui era dedicata la cappella – rileva la presenza sui muri della chiesa di mosaici ruggeriani. Il passaggio del Chronicon Romualdo Salernitano ci consente, anche se indirettamente, di fissare il limite di questa decorazione.

Nell’omelia, infatti, non solo il soffitto “risplende d’oro in ogni parte”, ma anche le pareti e il rivestimento in marmo e mosaico. Poiché si deve ammettere che la decorazione musiva dell’epoca del primo Guglielmo è quella delle pareti della navata centrale e delle navi laterali ne consegue che i mosaici citati nell’omelia sono quelli del presbiterio, e che per l’occasione le pareti della chiesa erano ornate di preziosi drappi e tessuti.

Nello stesso 1143, fermato nell’iscrizione della banda di mosaico che incornicia alla base il tamburo della cupola del Palatino, fu anche completato o quasi la decorazione della chiesa dell’ammiraglio, come scritto in un diploma di quell’anno del suo fondatore Giorgio di Antiochia.

I mosaici dell’abside di Cefalù, secondo l’iscrizione che corre alla base dell’ultimo registro figurativo, furono eseguiti nel 1148: non c’è motivo di dubitare di questa data, perché come ha dichiarato Di Stefano, la decorazione musiva è parte di quella fase di costruzione, la seconda, che ha visto particolarmente impegnato Ruggero a fare di Cefalù, seguendo l’esempio di Saint Denis, la chiesa rappresentativa della monarchia normanna in Sicilia.

Più avanti nel tempo, ma ancora in età Ruggeriana, i mosaici di una delle volte a crociera a crociera del bema sembrano essere a Cefalù, sia che essi, con lo Schwartz, siano considerati costruttivamente legati all’abside, o che con Di Stefano essi si considerano giustiziati intorno al 1150, quando abbandonato il progetto della grandiosa costruzione, l’inserimento delle volte, esemplare su modelli francesi, potrebbe essere un risarcimento per la rinuncia al completamento dell’abside.

Il complesso dei mosaici siciliani è quindi incluso in due momenti ben conclusi nei loro limiti cronologici. Il gruppo più antico, quello dell’età Ruggeriana, ha il suo epilogo in alcune zone dei mosaici del presbiterio della Palatina e in quelli della volta di Cefalù. Il secondo gruppo, tuttavia, iniziato durante il regno del primo William, ha la sua più grande manifestazione nei mosaici della cattedrale di Monreale. I personaggi dei due gruppi sono diversi, ma nella loro differenza trovano un punto di passaggio nei mosaici della navata centrale della Cappella Palatina, per gli accenti che ricordano ancora i più antichi e per la struttura che, in particolare sull’iconografia piano, è un preludio a quelli più avanzati.

Molto probabilmente i mosaici della “Sala di Re Ruggero” appartengono a questo periodo, in cui studiosi come Muratoff e Bettini vedono un riflesso delle “botteghe del palazzo Bisanzio”, ma le decorazioni della metropoli scompaiono. è l’unica opera rimasta per documentare l’aspetto profano e cortese dell’arte bizantina, intrisa di umori e motivi musulmani.

Per ciò che tocca le ragioni dello stile, i mosaici della “Sala del Re Ruggero” (il discorso naturalmente va a quelli delle mura) sembrano incastrarsi nella fila dei pannelli delle “feste” del presbiterio della Cappella Palatina. conduce a scene tratte dall’Antico Testamento nella navata centrale: alcune di esse reiterano gli accenti lineari, con un senso ancora più statico, per il recupero delle composizioni arcaiche frontali e per l’esclusione di ogni indicazione spaziale, in modo che le figure arrivino per essere raccolti nelle iniziali profili araldicamente raffinati, spinti fino alla preziosità dell’arabesco, mentre gli alberi, stilizzati in apparenze geometriche, acquistano un carattere di fissità favolosa.

La banda di mosaico della Zisa è riattaccata a loro, e il tono piuttosto vivace e animato del complesso porta a credere che sia più avanzato. In altre parole, si può affermare che tra i mosaici della Sala di Re Ruggero e quelli della Zisa esiste lo stesso rapporto tra i mosaici della navata centrale della Palatina e quelli della navata centrale di Monreale. E non si può escludere che appartengano contemporaneamente alla decorazione della famosa cattedrale.

La disposizione dei mosaici
La prima e più importante parte della decorazione musiva delle chiese siciliane fu quindi eseguita tra il 1140 e il 1154. Fu spesso lavorata in diverse chiese contemporaneamente, e furono impiegati diversi maestri e diversi lavoratori, anche se entrambi accusano aspetti simili e sembrano essere collegati allo stesso ambiente culturale, allo stesso centro dell’arte e della civiltà. Tuttavia, se diversi erano i maestri e gli operai, l’unico criterio era che – a parte l’adattamento al diverso tipo di costruzioni, ora centrico, ora basilicale – serviva da guida alla decorazione, sempre limitata, almeno in questo prima fase, all’area del santuario e quella del portico – dove trovarono posto sia la Palatina e la chiesa dell’ammiraglio che Cefalù – le figure votive o dediche, cioè le figure extraliturgiche.

La decorazione della chiesetta, costruita da Giorgio d’Antiochia, è l’esempio più omogeneo, anche se non il più complesso e alto tra i più antichi. Domina la cupola della cupola, all’interno di un disco d’oro, la benedizione Pantocrator, rappresentata non a metà lunghezza come nel Palatino ma, secondo una più arcaica, a figura intera; e nella prua del cappello adora quattro figure di angeli. Nel tamburo ottagonale della cupola, proprio agli angoli, ci sono le figure dei profeti (Davide, Isaia, Zaccaria, Mosè, Geremia, Elia, Eliseo, Daniele) con la destra sollevata nel classico gesto degli oratori e della sinistra nell’atto di mostrare il rotolo delle profezie; nelle volte, che fiancheggiano trasversalmente il tamburo della cupola, sono invece allineate a due a due e affrontate, in forme ancora più impressionanti, le figure degli apostoli: Pietro e Andrea, Giacomo e Paolo, Tommaso e Filippo, Simone e Bartolomeo. La serie degli apostoli, da cui Giacomo Maggiore e Mattia sono esclusi, è completata, in modo bizantino, dagli evangelisti curvi nelle nicchie angolari del collegamento.

Del ciclo di “feste” non possiamo vedere che quattro scene: la Natività e la Dormitio Virginis, una di fronte all’altra nella volta ovest: l’Annunciazione e la Presentazione al Tempio, figurate come sul Palatino sui fronti del grande archi che supportano la cupola. Diehl pensa che le quattro scene mostrate siano le uniche rimaste o le uniche eseguite durante il ciclo. Ma, per considerare le proporzioni limitate della chiesa, si può anche supporre che delle dodici scene del ciclo, che concepirono il piano di decorazione, scelsero solo quelli in relazione più immediata con la vita della Vergine, a cui la chiesa è stato dedicato.

La decorazione è completata dai guerrieri Santi e dai Santi Vescovi, all’interno di medaglioni, negli archi, e con i mosaici delle absidi: in quella centrale era rappresentata la Vergine assistita dagli arcangeli Gabriele e Michele, che si vedono ancora nel banda corrispondente della bema; nelle absidi laterali, in una San Gioacchino, nell’altra Sant’Anna.

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Nella Cappella Palatina la rappresentazione delle “parti” si trasforma in un vero ciclo cristologico. Dodici scene raggruppate in dieci compartimenti (Annunciazione, Natività e Adorazione dei Magi, Sogno di Giuseppe e Fuga in Egitto, Presentazione nel Tempio, Battesimo, Trasfigurazione, Resurrezione di Lazzaro, Entrata a Gerusalemme, Ascensione, Pentecoste) richiamano la storia di Cristo quella parte che meglio si collega con la sua natura ultraterrena e il trionfo divino nell’eternità. Scene mancanti relative alla Passione, la controparte umana della vicenda di cristologia, ma esse, almeno secondo l’opinione di Kitzinger, avrebbero dovuto trovare un posto nella parte settentrionale, poi occupate dalla tribuna per il trono reale. La presenza di esso spiegherebbe, secondo il Demus, alcune peculiarità iconografiche, come la posizione nell’aisidiola di sinistra, anziché quella centrale, di Hodigitria, e la sua disposizione, leggermente decentrato sul lato destro del bacino ( l’immagine in questo modo potrebbe ben vedere se stesso dal trono); e secondo la Kronig, sarebbe complicato, con un eccesso di significato simbolico,

In ogni caso, anche se il significato liturgico assume un’implicazione politico-religiosa, e la stessa iconografia è arricchita da nuove connessioni e sottili implicazioni, non si può dire che la disposizione iconografica del presbiterio di Palatina sia schiacciante nello schema tradizionale. Per esso, come nella chiesa della Martorana e successivamente nell’abside della cattedrale di Cefalù, dalla rappresentazione della chiesa celeste, simboleggiata dal Pantocratore – isolata nel punto più dominante: la sommità della cupola, o l’abside – e il suo corteo angelico, passiamo alla rappresentazione della Chiesa terrena, e in questo passaggio, che implica una gerarchia di simboli, ogni scena e ogni figura hanno una funzione precisa, resa evidente dalla stessa collocazione preordinata. Dal cielo passiamo passo dopo passo alla terra, dove l’eternità si rivela come un immacolato paradigma di perfezione, e alla vicenda umana adombrata da Etymasia (il trono simbolico con le insegne di Cristo) viene proposta, come una scala per raggiungere il paradiso, l’esemplarità della Chiesa terrena, stabilita dalle vicissitudini terrene e celesti di Cristo, testimoniata dalla vita dei santi e confortata dalla dottrina dei Padri. In questo modo, non un evento storico è la base dell’ordine iconografico, per stimolare l’immaginazione dell’artista, ma la fissità teocratica del dogma e della liturgia.

Precedenti e sviluppo dell’ordine iconografico
L’ordine iconografico appena citato appare, a quanto si sa, nei mosaici della “Nea” – la “nuova chiesa” per eccellenza – fondata nella seconda metà del IX secolo da Basilio I, e di cui esistono notizie per il descrizione fatta dal patriarca Photius in uno dei suoi “Sermoni”. Ugualmente distrutti sono i mosaici che adornavano la chiesa dei SS. Apostoli, rimessi in vigore dalle descrizioni di Costantino Rodio e Nicola Mesarita; così che il monumento più antico in cui si basa il nuovo sistema è oggi costituito dai mosaici della chiesa di San Luca a Focide, come generalmente si crede nella prima metà del IX secolo (intorno al 1035). Ma se vuoi un esempio che i siciliani non siano solo vicini alla disposizione iconografica, ma per il modo in cui è interpretato, e per la ripresa dei modelli classici, dobbiamo rivolgerci alla decorazione della chiesa della Dormizione a Daphni nel L’Attica, che tendiamo a credere, è stata realizzata all’inizio del nono secolo.

Il gruppo di mosaici delle chiese siciliane, a parte le generiche somiglianze della disposizione iconografica, ha ben poco in comune con la tradizione a cui sono legati i mosaici di San Luca, che è tradizionalmente in ritardo e provinciale sotto molti aspetti, anche quando egli asserisce in monumenti metropolitani o metropolitani, come i mosaici di Santa Sofia e San Michele a Kiev. L’orientamento a cui i mosaici siciliani si ricollegano più direttamente è quello definito come “aulico”, ed è proprio l’orientamento che riecheggia i mosaici di Daphni. Molti dei passaggi che esistono tra San Luca e Daphni e da questi ai mosaici siciliani sono sconosciuti, eppure dei mosaici greci, sia sul piano iconografico che su quello stilistico, non è possibile fare un precedente disco del siciliano quelli. La loro sistemazione, sostenuta dalla stessa conformazione dell’edificio, è ancora quella di San Luca, ma a confronto si ha l’impressione di trovarsi in presenza di un mondo nuovo, più astratto e immobile e soprattutto più armonioso e mondano.

Nell’invenzione iconografica, l’unico elemento di derivazione orientale è costituito dalla figura solenne e inaccessibile del Pantocratore; le altre figure e le altre scene hanno un tono meno distaccato e, sulla vasta gamma di oro, sono, dalla varietà modulata degli accenti cromatici, registrati con nobiltà di antica muffa. La disposizione liturgica è subordinata al ritmo del colore, in cui è trasfigurata: le varie figure e le varie scene sono ancora disposte entro i limiti dei compartimenti architettonici, ma il loro isolamento rituale e gerarchico viene superato dall’attrazione e dalla risposta continua dei colori e più dal rapporto di reciproca esaltazione che, specialmente in alcune aree (il tamburo della cupola, ad esempio, scenograficamente dilatato dalla successione dei Profeti,

Nelle chiese siciliane l’ordine iconografico corrisponde esattamente, almeno nei principi direttivi, ai criteri presentati, ma dove appare più coerente nella chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo, e quindi, con perfetto adattamento al pianta basilica, nella cattedrale di Cefalù e nell’abside della cattedrale di Monreale. A Santa Maria dell’Ammiraglio la decorazione, pur seguendo, seguendo l’esempio di Daphni, lo sviluppo delle strutture architettoniche, si articola con maggiore libertà sui vasti campi dorati. Una desaturazione puntuale può essere indicata nella successione ritmica dei profeti sui volti ottagonali del tamburo a cupola, ma il punto della concordanza più intima è nella rinascita dei motivi classici e nel rinnovato equilibrio tra le convenienze liturgiche e lo svolgersi del effetto.

Nell’abside della cattedrale di Cefalù e in quella della cattedrale di Monreale, da essa derivata, la decorazione armonizza l’integrità della significazione dogmatica con l’andamento basilicale degli edifici, ed è in relazione con la struttura architettonica che spiega il recupero del tipo premaperone, e della derivazione iconica, della figura severa del Pantocrator, che è grandiosa nei bacini delle due absidi. A Cefalù la teoria degli otto apostoli, sotto la fascia al centro della Vergine in preghiera, simboleggia insieme la chiesa terrena e il sacramento dell’Eucaristia.

Questa concezione iconografica è presente anche nella pianta della decorazione della Cappella Palatina: qui, tuttavia, va ben oltre l’unico obiettivo di Daphni, ma anche degli esempi più avanzati della chiesa dell’ammiraglio e della cattedrale di Cefalù. La decorazione, in particolare quella dell’area sotto il tamburo della cupola, è già dissolta dal ritmo delle partiture architettoniche e copre le strutture e le pareti “come un tappeto di colore dorato, splendidamente fiorito. Certamente mantiene la sua logica interna in tale un dispiegarsi, ma non sempre coincide con quello dell’architettura, in modo che il senso delle superfici e il loro sviluppo nel ritmo dell’organismo centrico non possano essere colti con l’immediata urgenza sottolineata, per riferirsi all’esempio più vicino, nella chiesa dell’ammiraglio, questa autonomia verso i modelli conosciuti, che probabilmente non si può fare con la suggestione della decorazione araba delle sale adiacenti dell’edificio (ammesso – cosa difficile da credere – che fosse già stato fatto), così come nella disposizione del tutto, cattura anche l’avvincente di alcune scene, comprese quelle relative al ciclo cristologico: Daphni è solo una fase del suo sviluppo – non è per niente che questo artista è il più dotato tra quelli che lavorano in Sicilia al momento – ancora più brillante e dotto, eppure più libero e più mondano.

Analisi stilistica
Tra i vari cicli mosaici della Sicilia è facile cogliere importanti punti di contatto. Questo è particolarmente vero per i mosaici della Cappella Palatina e della chiesa dell’Ammiraglio, a proposito dei quali può anche essere utile notare che le analogie funzionano, in un certo senso, parallelamente ai gruppi corrispondenti. Anche nel contesto di un orientamento comune, le affinità diventano più marcate tra le corrispondenti decorazioni delle due cupole, tra la decorazione delle aree sotto le cupole e infine negli episodi delle “parti”.

La decorazione della cupola, con al centro il Pantocratore, è la parte più antica dei mosaici della Cappella Palatina, e quasi contemporaneamente è stata eseguita la stessa parte della decorazione della chiesa dell’Ammiraglio. Il riferimento non è casuale perché tra le due figure del Pantocrator, nonostante sia quella della Chiesa dell’Ammiraglio ispirata ad uno schema più arcaico, esistono molte affinità: sia l’una che l’altra figura si staccano dall’impalpabile sfondo dorato come da un superficie irregolare e si uniscono, abbinandosi al tondo che li contiene, nella linea di contorno perspicua, con nitidezza nitida, serviti dalla meticolosa completezza del disegno e dal colore chiaro che, soprattutto nella figura della chiesa dell’ammiraglio, brilla sul fondo superficie. L ‘inaccessibile serenità di queste immagini remote è supportata dalla saggezza di chi può fare affidamento sui dati acquisiti da una lunga esperienza e dalla saggezza che accompagna ogni accademico. Nei mosaici sottostanti, compresi quelli sui volti degli archi, il rapporto tra la Cappella Palatina e la chiesa dell’Ammiraglio diventa più accentuato, ma il tono – soprattutto in relazione al sontuoso anello con gli angeli, “riverbero purificato del cerimoniale cortese e dello splendore della corte bizantina “, e di una” suprema qualità pittorica … nel colore … moltiplicato per gli ornamenti sulle vesti, per l’iride delle ali inesplorate “- è più corsivo, e più ampio sono i restauri e le ricostruzioni.

La parte più alta del Palatino è il ciclo cristologico. Il mosaicista sconosciuto attinge dalla miniatura contemporanea, come aveva già osservato il Kondakoff, i termini della sua poetica ben convinta. Da qui l’allungamento delle proporzioni delle figure e dei ritmi ondulati dei contorni, di una splendida purezza; da qui il numero crescente di figure nelle composizioni, e la vivacità narrativa contenuta che sostituisce l’isolamento statuario delle immagini; da qui l’eliminazione nella linea di ogni disegno implicita e il colore dei colori, di una chiara intonazione e un timbro argentino, in zone piatte e circoscritte, in modo che le scene appaiano registrate in un cantante e tono unito, freddo e luminoso. Anche in questi mosaici il segno è supportato da una grafica di impegno accademico, l’Egitto decantato, sullo sfondo dorato, alla stessa luce dei colori chiari, alla maniera di una preziosa pagina illuminata; ora si diletta divertita nella freschezza arguta degli episodi, come nell’Ingresso di Gesù a Gerusalemme, la cui festa è accentuata dalla limpidezza argentea della salita montuosa, che esalta la luminosità dei colori. Proprio questa scena – ma l’esemplificazione potrebbe allargarsi – a ripetere approssimativamente l’invasione di quella di Daphni, può rendere misurabile, nonostante le somiglianze, forse troppo accentuate da Muratoff, la separazione tra i due artisti. Poche figure a Daphni, e un segno altrimenti ben risentito e stretto nella relazione vincolante della composizione. Il ritmo rilassato e gaio della composizione del Palatino è quindi più severo, ed è servito da una trama vibrante di passaggi cromatici, sconosciuti al mosaicista della scena palermitana, che invece fa risplendere il colore nella sua purezza – da qui il diverso sistema del posizionamento delle carte – e lo colloca in zone unite sul piano.

Al mosaicista delle “feste” appartiene anche il Pantocrator della lunetta in cima alla diaconia: un capolavoro di equilibrio e raffinatezza e, naturalmente, l’immagine più alta di tutto il complesso. Il confronto con quello della cupola serve a mettere in risalto chiaramente la diversità del modo in cui la qualità scelta: la leggerezza del tessuto lineare, che innalza la figura e la include, con un rapporto meravigliosamente armonioso, all’interno della sesta alzata della lunetta e il colore che splende in alto, sigillando l’immagine come un velo traslucido.

I mosaici che decorano l’interno della chiesa dell’ammiraglio presentano un carattere più omogeneo e collegato, ma non è dubbio che anche diversi artisti abbiano lavorato qui. Non è ad esempio quelli che non vedono la differenza tra la figura del Pantocratore e scene come l’Annunciazione o la Presentazione nel Tempio. Ciò che viene definito è la prima figura, ugualmente mossa e contrastata, nel nodo risentito e serrato e dispiegato del panneggio, nel gioco di luci e ombre, sono, come nella Cappella Palatina, le altre figure, e quanto movimento si risolve in un’accentuazione chiaroscurale continua, così le figure si staccano dallo sfondo con un’illusione di sollievo.

Un maestro di possibilità più elevate, ma sempre in connessione con quello delle sontuose figurazioni del Palatino, doveva fornire i cartoni per gli angeli che si inchinano nel cappello a forma di coppa, per gli arcangeli della volta sul bema; per i profeti del tamburo e per gli evangelisti di nicchie angolari; ed è probabilmente il maestro che concepì, nella chiesa dell’Ammiraglio, i due compartimenti con la Natività e il Dormitio Virginia. Il confronto con scene simili della Palatina è istruttivo per capire – anche tra le innegabili affinità – il diverso modo di sentire dei due maestri. Le composizioni non sono più distese sulla superficie ma, più in linea con la tradizione, si concentrano su se stesse, si raccolgono in linee più severe e sintetiche, evitando ogni dispersione vagante. Sembri, per esempio, nella Natività il profilo della grotta, articolato in una linea semplice e grandiosa, senza, al sommo, quell’ornato frastagliato di cui, al contrario, si apprezza e sul quale il mosaicista del Palchi Palatino. Ma nel complesso questa è una scena più semplice e più statica.

I due principali gruppi di mosaici della chiesa dell’Ammiraglio – cioè quello che include i profeti del tamburo a cupola e le due scene della Natività e della Morte della Vergine e quella con le figure degli Apostoli, in cui il tono diventa più sostenuto e il sollievo disegna una sorprendente illusoria – sono proposti in questo modo come “la continuazione più pura e diretta di Dafni” (Bettini).

Questo riferimento va ovviamente oltre l’analoga disposizione, nell’uno o nell’altro monumento, delle figure dei profeti attorno al tamburo della cupola, e tocca la stessa qualità di stile, in relazione alla quale la parola “continuazione” deve essere intesa come superando il eredità “illusionistica” che circonda le figure di Daphni in una vibrazione continua di colori e li fa risaltare, con estrema morbidezza di passaggi, sullo sfondo dorato, da dove le figure della piccola chiesa di Palermo possono apparire più rigide e statiche, più astratto e distaccato.

I mosaici dell’abside del Duomo di Cefalù appartengono indubbiamente all’attività di un singolo artista, il quale, a giudicare dalla modellazione più asciutta, si è avvalso di un aiuto solo per la realizzazione della figura del Pantocratore. Nel complesso, l’opera ben conservata è la più nobile, se non la più brillante, tra quelle in Sicilia che sono dovute all’attività diretta degli artisti bizantini. Ed è solo in questo senso che i giudizi di Millet, Wulff e altri devono essere accertati, ripresi e reiterati da Lasareff. Solo il Muratoff ha calcato la mano su questi mosaici e, anche se non ha mancato di rilevare la “grande abilità e precisione tecnica dell’esecuzione”, li ha giudicati “frigidamente ufficiali”; che è vero, ma solo in parte, cioè, solo se consideriamo i mosaici delle pareti e non quelli dell’abside, l’unico viceversa da lui menzionato. Infatti, la schematicità delle corrispondenze simmetriche entro cui sembra risolversi – come allora, su un fondamento analogo, nelle figure classiche degli Apostoli dei superbi affreschi che ornano l’abside della Pieve di Bagnacavallo – il principio ritmico bizantino composizione, è qui intimamente fuso con la rilassata solennità del tutto, e per ottenere questo effetto, insieme con la spaziatura ampia e ritmata, la grandezza delle figure, di un retaggio classico, e il radioso silenzio dei colori felici. Inoltre, nella rigidità dello schema, le figure, anche nelle equivalenze imposte dal perfetto bilanciamento, si disimpegnano con piena autonomia, e se il Pantocrator e la Vergine si accampano in pose frontali, le altre figure si girano su se stesse e, come nel stessa Rimini, a due a due accoppiata dalla vivacità dei gesti e dal ritmo dei movimenti. Per l’impronta ieratica che esalta la calma dimensione delle figure delle bande più alte, riflette la mobilità che si snoda tra le figure delle due aree inferiori. Così ripetiamo, a livello intimamente espressivo, il contrasto simboleggiato dall’ordine iconografico, tra l’eternità senza cambiamenti della sfera celeste e la mutevolezza temporale della sfera terrena. L’impronta ieratica che esalta la calma delle figure delle bande più alte si riflette nella mobilità che si snoda tra le figure delle due aree inferiori. Così ripetiamo, a livello intimamente espressivo, il contrasto simboleggiato dall’ordine iconografico, tra l’eternità senza cambiamenti della sfera celeste e la mutevolezza temporale della sfera terrena. Hieratic imprint that enhances the calmness of the figures of the highest bands is reflected in the mobility that winds through the figures of the two lower areas. Thus we repeat, on an intimately expressive level, the contrast symbolized by the iconographic order, between eternity without changes of the celestial sphere and the temporal changeability of the earthly sphere.

If from the rhythm that associates the figures in the composition we pass to the ways that singularly they are realized, it is easy to notice that the solemnity of the whole finds a perfect confirmation in their sustainingness, of still classical ancestry; a character whose organic or statuary sense is, no less impressive but otherwise animated, of the Apostles of the Admiral’s church. An analogous intonation characterizes the solemn and pathetic figure of the Pantocrator, so finely commensurate with the development of the apsidal basin and so soft – even if here and there stiffened by the intervention of aid – for the subtle texture of the chromatic passages. To ascertain it is enough to compare it with that of the apse of the cathedral of Monreale. Apart from the emphatic tone, also due to the dilation of the proportions, the classic amplitude of the drapes is dispersed in the insistent jagging of the lines: the essentiality of the superb figure of Cefalù and its balanced receding of the apse surface are thus lost, and the same grandeur – as also noted by Kokandoff, referring however to the whole decoration complex – is represented by the maternity of proportions and the jagged shapes.

The diversity of movements that, even in the context of a homogeneous orientation of culture and often of style, must be noted in the mosaics of Sicilian churches, leaves somewhat perplexed on the judgment that, mainly on the data offered by the dogmatic and however impassable liturgical order, stiffens the Byzantine painting in a glacial linguistic immolation. According to this judgment, the limit set by theological and theocratic requirements and liturgical conveniences would make this art ” unlimitedly assertive “, transforming its language into ” esoteric jargon “, into ” scriptural automatism “, into ” ideological and symbolic writing “, that finds its anchor of salvation in an ” absolute hedonism”. Certainly, compared to Western art, and particularly to that of Romance, Byzantine painting seems devoid of that imprudent spirit, of that human sympathy, which is the counterpart of a non-dogmatic and contemplative morality, but free and active; a morality that allows us to look at the heavens through the contrast of earthly interests, curious and dismayed by the things of the world, of which it seeks precisely to clarify the mystery. However, even looking at the earth from the sky, the Byzantine painters always found, as seen through the mosaics of the Sicilian churches, to affirm their personality, to a sign perhaps not touched either by the poets or by their literati contemporaries. It is therefore possible, and indeed could not be otherwise, their qualification on the plain or concrete of “values”.

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