Biennale d’arte di Venezia 2022, Il latte dei sogni, Parte 1, Gli artisti

La 59. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, intitolata “Il latte dei sogni”, a cura di Cecilia Alemani, è stata aperta al pubblico da sabato 23 aprile a domenica 27 novembre 2022. La mostra si svolge nel Padiglione Centrale (Giardini) e all’Arsenale, tra cui 213 artisti provenienti da 58 paesi; 180 di questi partecipano per la prima volta all’Esposizione Internazionale. 1433 le opere e gli oggetti in mostra, 80 nuovi progetti sono pensati ad hoc per la Biennale Arte.

La mostra “The Milk of Dreams” porta le creature ultraterrene di Leonora Carrington, insieme ad altre figure di trasformazione, come compagni di un viaggio immaginario attraverso le metamorfosi dei corpi e le definizioni dell’umano. The Milk of Dreams prende il titolo da un libro di Leonora Carrington (1917–2011) in cui l’artista surrealista descrive un mondo magico in cui la vita è costantemente rivisitata attraverso il prisma dell’immaginazione. È un mondo in cui tutti possono cambiare, trasformarsi, diventare qualcosa o qualcun altro; un mondo libero, ricco di possibilità.

Ma è anche l’allegoria di un secolo che ha imposto una pressione intollerabile sulla definizione stessa di sé, costringendo Carrington a una vita di esilio: rinchiuso nei manicomi, eterno oggetto di fascino e desiderio, ma anche figura di potere sorprendente e mistero, sempre in fuga dalle costrizioni di un’identità fissa e coerente. Questa mostra si basa su molte conversazioni con artisti tenute negli ultimi anni. Le domande che continuavano a emergere da questi dialoghi sembrano cogliere questo momento storico in cui è minacciata la sopravvivenza stessa della specie, ma anche riassumere molte altre domande che pervadono le scienze, le arti e i miti del nostro tempo.

Come sta cambiando la definizione di umano? Cosa costituisce la vita e cosa differenzia la pianta e l’animale, l’uomo e il non umano? Quali sono le nostre responsabilità nei confronti del pianeta, delle altre persone e di altre forme di vita? E come sarebbe la vita senza di noi? Sono alcune delle domande guida di questa edizione della Biennale Arte, che si concentra in particolare su tre aree tematiche: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; il rapporto tra individui e tecnologie; il collegamento tra i corpi e la Terra.

Molti artisti contemporanei immaginano una condizione postumana che sfida la moderna visione occidentale dell’essere umano – e soprattutto il presunto ideale universale dell’“Uomo della Ragione” bianco e maschile – come centro fisso dell’universo e misura di tutte le cose. Al suo posto, gli artisti propongono nuove alleanze tra specie e mondi abitati da esseri porosi, ibridi, molteplici che non sono dissimili dalle straordinarie creature di Carrington. Sotto la pressione sempre più invasiva della tecnologia, i confini tra corpi e oggetti sono stati completamente trasformati, determinando profonde mutazioni che rimappano soggettività, gerarchie e anatomie.

Oggi, il mondo sembra drammaticamente diviso tra l’ottimismo tecnologico – che promette che il corpo umano può essere perfezionato all’infinito attraverso la scienza – e il terrore di una completa acquisizione da parte delle macchine tramite l’automazione e l’intelligenza artificiale. Questa spaccatura si è allargata durante la pandemia di Covid-19, che ci ha costretti a separarci ancora di più e ingabbiare gran parte dell’interazione umana dietro gli schermi dei dispositivi elettronici.

La pressione della tecnologia, l’intensificarsi delle tensioni sociali, lo scoppio della pandemia e l’incombente minaccia di un disastro ambientale ci ricordano ogni giorno che come corpi mortali non siamo né invincibili né autosufficienti, ma piuttosto parte di una rete simbiotica di interdipendenze che ci legano gli uni agli altri, alle altre specie e al pianeta nel suo insieme.

In questo clima, molti artisti immaginano la fine dell’antropocentrismo, celebrando una nuova comunione con il non umano, con il mondo animale e con la Terra; coltivano un senso di parentela tra le specie e tra l’organico e l’inorganico, l’animato e l’inanimato. Altri reagiscono alla dissoluzione di sistemi presunti universali, riscoprendo forme di conoscenza localizzate e nuove politiche identitarie. Altri ancora praticano quello che la teorica e attivista femminista Silvia Federici chiama il “re-incanto del mondo”, mescolando tradizioni indigene con mitologie personali più o meno allo stesso modo di Leonora Carrington.

La mostra
La mostra si snoda nel Padiglione Centrale dei Giardini, nelle Corderie, nelle Artiglierie e negli spazi esterni delle Gaggiandre e del Giardino delle Vergini del complesso dell’Arsenale. La mostra presenta opere contemporanee e nuovi progetti pensati appositamente per la Biennale Arte, presentati in dialogo con opere storiche dall’Ottocento in poi.

The Milk of Dreams comprende oltre duecento artisti provenienti da 58 paesi. Più di 180 di questi artisti non hanno mai partecipato all’Esposizione Internazionale d’Arte fino ad ora. Per la prima volta nei suoi 127 anni di storia, la Biennale includerà una maggioranza di donne e artisti non conformi di genere, una scelta che riflette una scena artistica internazionale piena di fermento creativo e un deliberato ripensamento della centralità dell’uomo nella storia dell’arte e cultura contemporanea.

Mentre i visitatori si muovono attraverso la mostra nel Padiglione Centrale e nelle Corderie, incontrano cinque sezioni storiche più piccole: costellazioni in miniatura di opere d’arte, oggetti trovati e documenti, raggruppati insieme per esplorare alcuni temi chiave. Concepite come capsule del tempo, queste mostre all’interno della mostra forniscono ulteriori strumenti di indagine e di introspezione, intrecciando una rete di riferimenti ed echi che collegano opere d’arte del passato – inclusi importanti prestiti museali e selezioni non convenzionali – alle opere di artisti contemporanei nello spazio circostante .

Questo approccio ad ampio raggio e transstorico traccia parentele e affinità tra metodi e pratiche artistiche, anche attraverso le generazioni, per creare nuovi strati di significato e collegare presente e passato. Ciò che emerge è una narrazione storica che non è costruita intorno a sistemi di eredità diretta o conflitto, ma intorno a forme di simbiosi, solidarietà e sorellanza.

Con una specifica coreografia degli spazi architettonici sviluppata in collaborazione con il duo di designer Formafantasma, questi “armadi” suggeriscono anche una riflessione su come la storia dell’arte si costruisce attorno a pratiche museali ed espositive che stabiliscono gerarchie di gusto e meccanismi di inclusione ed esclusione. Molte delle storie raccontate in queste capsule non sono state ancora assorbite nel canone ufficiale e sono state per troppo tempo considerate minori e oscure.

Queste sezioni partecipano così al complesso processo di riscrittura e rilettura della storia che ha segnato gli ultimi anni, quando è diventato più che mai chiaro che nessun racconto storico può mai essere considerato definitivo.

Gli artisti
Fulcro di The Milk of Dreams è una galleria al piano inferiore del Padiglione Centrale dove la prima delle cinque capsule presenta una collezione di opere di artiste delle avanguardie storiche, tra cui, tra le altre, Eileen Agar, Leonora Carrington, Claude Cahun, Leonor Fini, Ithell Colquhoun, Loïs Mailou Jones, Carol Rama, Augusta Savage, Dorothea Tanning e Remedios Varo. Le opere di queste e di altre artiste del primo Novecento – esposte in un ensemble ispirato alle mostre surrealiste – evocano un dominio del meraviglioso in cui anatomie e identità possono mutare e mutare, seguendo il desiderio di trasformazione ed emancipazione.

Molte delle stesse linee di pensiero ritornano nel lavoro di artisti contemporanei in mostra nelle altre gallerie del Padiglione Centrale. I corpi mutanti convocati da Aneta Grzeszykowska, Julia Phillips, Ovartaci, Christina Quarles, Shuvinai Ashoona, Sara Enrico, Birgit Jürgenssen e Andra Ursuţa suggeriscono nuove fusioni di organico e artificiale, sia come mezzo di auto-reinvenzione o come inquietante presagio di un futuro sempre più disumanizzato.

I legami tra essere umano e macchina sono analizzati in molte delle opere in mostra, come quelle di Agnes Denes, Lillian Schwartz e Ulla Wiggen, ad esempio, o le superfici serigrafiche di Dadamaino, Laura Grisi e Grazia Varisco, raccolti in una seconda presentazione storica che esplora l’arte programmata e l’astrazione cinetica negli anni ’60.

I legami tra corpo e linguaggio sono al centro di un’altra capsule ispirata a Materializzazione del linguaggio, una vetrina di poesia visiva e concreta alla Biennale Arte 1978, una delle prime mostre apertamente femministe nella storia dell’istituzione. Poesie visive e concrete di Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga, Ilse Garnier, Giovanna Sandri e Mary Ellen Solt sono qui accostate agli esperimenti di scrittura automatica e comunicazione medianica di Eusapia Palladino, Georgiana Houghton e Josefa Tolrà, e altre forme di “scrittura femminile ” che spaziano dagli arazzi di Gisèle Prassinos alle micrografie di Unica Zürn.

Segni, simboli e linguaggi privati ​​affiorano anche nell’opera di artisti contemporanei come Bronwyn Katz, Sable Elyse Smith, Amy Sillman e Charline von Heyl, mentre i dipinti tipografici di Jacqueline Humphries sono giustapposti ai grafemi di Carla Accardi e al codice macchina che informa l’arte di Charlotte Johannesson, Vera Molnár e Rosemarie Trockel.

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In contrasto con questi scenari ipertecnologici, i dipinti e gli assemblaggi di Paula Rego e Cecilia Vicuña immaginano nuove forme di simbiosi tra animali ed esseri umani, mentre Merikokeb Berhanu, Mrinalini Mukherjee, Simone Fattal e Alexandra Pirici elaborano narrazioni che intrecciano preoccupazioni ambientali con antiche tradizioni ctonie divinità, producendo mitologie ecofemministe innovative.

La mostra all’Arsenale si apre con l’opera di Belkis Ayón, artista il cui lavoro attinge alle tradizioni afrocubane per descrivere una società immaginaria matriarcale. La riscoperta del potenziale di creazione di miti dell’arte può essere vista anche nei dipinti su larga scala di Ficre Ghebreyesus e nelle visioni allucinanti di Portia Zvavahera, nonché nelle composizioni allegoriche di Frantz Zéphirin e Thao Nguyen Phan che fondono storie, sogni e religioni. Attingendo alla conoscenza indigena e sovvertendo gli stereotipi colonialisti, l’artista argentino Gabriel Chaile presenta una nuova serie di sculture monumentali, realizzate con argilla cruda, che torreggiano come gli idoli di una fantasiosa cultura mesoamericana.

Molti artisti in mostra immaginano nuove complesse relazioni con il pianeta e con la natura, suggerendo modalità inedite di convivenza con le altre specie e con l’ambiente. Il video di Eglė Budvytytė racconta la storia di un gruppo di giovani sperduti nelle foreste della Lituania, mentre i personaggi di un nuovo video di Zheng Bo vivono in totale – anche sessuale – comunione con la natura. Un simile senso di meraviglia può essere trovato nelle scene innevate ricamate dall’artista Sami Britta Marakatt-Labba, e antiche tradizioni si sovrappongono anche a nuove forme di attivismo ecologico nelle opere di Sheroanawe Hakihiiwe e nelle composizioni oniriche di Jaider Esbell.

The Corderie inizia con un’altra capsula del tempo, in questo caso ispirata dall’autrice di fantascienza Ursula K. Le Guin e dalla sua teoria della narrativa, che lega la nascita della civiltà non all’invenzione delle armi, ma agli strumenti utilizzati per fornire sostentamento e cura: borse, sacchi e vasi. In questa sezione, i carapaci ovoidali dell’artista surrealista Bridget Tichenor sono giustapposti alle sculture in gesso di Maria Bartuszová, alle sculture sospese di Ruth Asawa e alle creature ibride di Tecla Tofano. Queste opere del passato vivono fianco a fianco con i vasi antropomorfi di Magdalene Odundo e le forme concave di Pinaree Sanpitak, mentre l’artista video Saodat Ismailova esamina le celle di isolamento sotterranee che fungono da luoghi di rifugio e meditazione.

L’artista colombiano Delcy Morelos, le cui opere si ispirano alle cosmologie andine e alle culture dell’Amazzonia, presenta un’installazione su larga scala caratterizzata da un labirinto costruito con la terra. Molti altri artisti in mostra combinano approcci politici e sociali con un’indagine sulle tradizioni locali, come nei dipinti su larga scala di Prabhakar Pachpute sulla devastazione ambientale causata dall’industria mineraria in India, o nel video di Ali Cherri sulle dighe del Nilo. Igshaan Adams fonda le sue composizioni tessili astratte su temi che vanno dall’apartheid alle condizioni di genere in Sud Africa, mentre Ibrahim El-Salahi trasmette la sua esperienza di malattia e il suo rapporto con il mondo farmaceutico attraverso una pratica meditativa di meticolosi disegni quotidiani.

La sezione finale delle Corderie è introdotta dalla quinta e ultima capsula del tempo, che ruota attorno alla figura del cyborg. Questa presentazione riunisce artisti che hanno lavorato nel corso del 20° secolo e che hanno immaginato nuove fusioni di umano e artificiale, come precursori di un futuro postumano e postgender. Questa capsula include opere d’arte, manufatti e documenti di artisti dell’inizio del XX secolo come la dadaista Elsa von Freytag-Loringhoven, i fotografi del Bauhaus Marianne Brandt e Karla Grosch e i futuristi Alexandra Exter, Giannina Censi e Regina. Qui, le delicate sculture di Anu Põder ritraggono corpi frammentati in contrasto con i monoliti di Louise Nevelson, i totem di Liliane Lijn, le macchine di Rebecca Horn e i robot di Kiki Kogelnik.

Proprio in fondo alle Corderie, dopo aver attraversato una vasta e diafana installazione di Kapwani Kiwanga, la mostra assume toni più freddi, più artificiali e la figura umana diventa sempre più evanescente, sostituita da animali e creature ibride o robotiche. Le sculture biomorfiche di Marguerite Humeau assomigliano a esseri criogenici, giustapposti ai monumentali esoscheletri di Teresa Solar. Raphaela Vogel descrive un mondo in cui gli animali hanno vinto sugli umani, mentre le sculture di Jes Fan utilizzano materiali organici come la melanina e il latte materno per creare un nuovo tipo di coltura batterica.

Scenari apocalittici di cellule che si scatenano e incubi nucleari si ritrovano anche nei disegni di Tatsuo Ikeda e nelle installazioni di Mire Lee, agitate dal contrazioni di macchinari che ricordano l’apparato digerente di qualche animale. Un nuovo video della pioniera postumanista Lynn Hershman Leeson celebra la nascita di organismi artificiali, mentre l’artista coreano Geumhyung Jeong gioca con corpi che sono diventati completamente robotici e possono essere riassemblati a piacimento.

Altre opere aleggiano tra tecnologia obsoleta e visioni miraggistiche del futuro. Le fabbriche abbandonate e i decrepiti meccanismi industriali di Zhenya Machneva sembrano rivivere nelle installazioni di Monira Al Qadiri e Dora Budor, che ronzano e girano come macchine da scapolo. A coronamento di questa serie di dispositivi andati in tilt, una grande installazione di Barbara Kruger pensata appositamente per le Corderie combina slogan, poesia e oggetti-parola in un crescendo di ipercomunicazione. Al contrario, le sculture silenziose di Robert Grosvenor rivelano un mondo che sembra privo di ogni presenza umana. E oltre questo universo immobile cresce il vasto giardino entropico di Precious Okoyomon, brulicante di nuova vita.

Chiudono la mostra negli spazi esterni dell’Arsenale i grandi progetti di Giulia Cenci, Virginia Overton, Solange Pessoa, Wu Tsang e Marianne Vitale, che guidano gli spettatori al Giardino delle Vergini lungo un percorso che conduce attraverso esseri animali, sculture organiche , rovine industriali e paesaggi disorientanti.

Il Latte dei Sogni è stato concepito e organizzato in un periodo di enorme instabilità e incertezza, poiché il suo sviluppo ha coinciso con lo scoppio e la diffusione della pandemia di Covid-19. La Biennale di Venezia è stata costretta a posticipare di un anno questa edizione, evento che si verificava solo durante le due guerre mondiali dal 1895. Quindi il fatto stesso che questa mostra possa aprire è alquanto straordinario: la sua inaugurazione non è esattamente il simbolo di una ritorno alla vita normale, ma piuttosto il risultato di uno sforzo collettivo che sembra quasi miracoloso. Per la prima volta, tranne forse nel dopoguerra, il Direttore Artistico non ha potuto visionare in prima persona molte delle opere, né incontrare di persona la maggior parte degli artisti partecipanti.

Durante questi interminabili mesi davanti allo schermo, il curatore si è interrogato sul ruolo che dovrebbe svolgere l’Esposizione Internazionale d’Arte in questo frangente storico, e la risposta più semplice e sincera che il curatore potrebbe trovare è che la Biennale riassume tutte le cose ci è mancato così tanto negli ultimi due anni: la libertà di incontrare persone da tutto il mondo, la possibilità di viaggiare, la gioia di passare del tempo insieme, la pratica della differenza, la traduzione, l’incomprensione e la comunione.

The Milk of Dreams non è una mostra sulla pandemia, ma inevitabilmente registra gli sconvolgimenti della nostra epoca. In tempi come questo, come mostra chiaramente la storia della Biennale di Venezia, l’arte e gli artisti possono aiutarci a immaginare nuove modalità di convivenza e infinite nuove possibilità di trasformazione.

Biennale di Venezia
La Biennale di Venezia è una mostra biennale d’arte internazionale che si tiene a Venezia, in Italia. Definite spesso “le Olimpiadi del mondo dell’arte”, la partecipazione alla Biennale è un evento prestigioso per gli artisti contemporanei. Il festival è diventato una costellazione di spettacoli: una mostra centrale curata dal direttore artistico di quell’anno, padiglioni nazionali ospitati dalle singole nazioni e mostre indipendenti in tutta Venezia. L’organizzazione madre della Biennale ospita anche festival regolari in altre arti: architettura, danza, cinema, musica e teatro.

Al di fuori dell’esposizione internazionale centrale, le singole nazioni producono i propri spettacoli, noti come padiglioni, come rappresentazione nazionale. Le nazioni proprietarie degli edifici dei loro padiglioni, come i 30 ospitati ai Giardini, sono responsabili anche dei propri costi di manutenzione e costruzione. Nazioni senza edifici dedicati creano padiglioni nell’Arsenale di Venezia e palazzi in tutta la città.

Giardini è la sede tradizionale delle Mostre d’Arte della Biennale sin dalla prima edizione nel 1895. I Giardini ospitano oggi 29 padiglioni di paesi esteri, alcuni dei quali progettati da famosi architetti come il Padiglione Austria di Josef Hoffmann, il Padiglione Olandese di Gerrit Thomas Rietveld o il Padiglione Finlandese , un prefabbricato a pianta trapezoidale disegnato da Alvar Aalto.

L’Arsenale era il più grande centro produttivo di Venezia durante l’era preindustriale, simbolo del potere economico, politico e militare della città. Dal 1980 l’Arsenale è diventato sede espositiva della Biennale in occasione della 1° Mostra Internazionale di Architettura. In seguito gli stessi spazi sono stati utilizzati durante le Mostre d’Arte per la sezione Open.

Con il progressivo ampliamento della scala, l’ambito della Biennale di Venezia si è ampliato fino a coprire l’intera città. Oltre alle principali sedi espositive, comprende anche numerosi padiglioni sparsi per le strade dei paesi e anche nelle isole periferiche.

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