Urbino Renaissance

Il Rinascimento a Urbino fu una delle declinazioni fondamentali del primo Rinascimento italiano.

Durante il regno di Federico da Montefeltro, dal 1444 al 1482, un clima artistico fertile e vitale si sviluppò a corte, grazie agli scambi culturali con numerosi centri sulla penisola e anche all’estero, in particolare quelli fiamminghi. Il movimento culturale di Urbino era esaurito all’interno della corte, attorno al suo principe più raffinato, e sebbene sviluppasse soluzioni molto avanzate e all’avanguardia, non generò una vera scuola locale, nemmeno per ricorrere soprattutto a artisti stranieri. Nonostante ciò, la lingua di Urbino, in virtù del movimento degli artisti, si diffuse ampiamente, rendendola una delle principali declinazioni del Rinascimento italiano. Tra le caratteristiche fondamentali della sua cultura umanistica c’era il tono inconfondibile reso di misura e rigore, che ebbe come protagonisti Piero della Francesca, Luciano Laurana, Giusto di Gand, Pedro Berruguete, Francesco di Giorgio Martini, Fra Diamante.

Secondo lo storico francese André Chastel, il rinascimentale Urbinate, chiamato “matematico”, era una delle tre componenti fondamentali del Rinascimento delle origini, insieme a quello fiorentino, “filologico e filosofico”, e quello padovano, “epigrafico” e archeologico “. Dei tre era quello “più strettamente connesso alle arti”.

Avvicinandosi al XVI secolo, la città, pur rimanendo un’isola di cultura raffinata, ha visto un impoverimento della sua vitalità nelle arti visive. Tuttavia, a Urbino, uno dei grandi geni del Rinascimento maturo nacque e mosse i primi passi: Raffaello Sanzio. Da un punto di vista culturale e letterario, invece, Urbino è rimasto a lungo uno degli ambienti più stimolanti in Italia, come testimoniato da Baldassarre Castiglione, che pose il suo Cortegiano alla corte di Guidobaldo ed Elisabetta da Montefeltro.

Contesto storico e culturale
Federico da Montefeltro, conduttore di successo, diplomatico di grande talento e appassionato mecenate delle arti e della letteratura, fu il responsabile della trasformazione del ducato di Urbino dalla capitale di un’area economicamente depressa a uno dei centri artistici più fertili e raffinati del periodo.

Nel 1444 Federico prese il potere dopo la morte di suo fratello Oddantonio in una cospirazione.

All’epoca era un capitano di ventura tra i più richiesti, ma aveva anche ricevuto una rara educazione umanistica a Mantova, a cura di Vittorino da Feltre. Dal maestro ha assorbito l’interesse per la matematica, che avrebbe segnato gran parte dei suoi interessi culturali e delle sue committenze artistiche, e come risultato dell’architettura, considerata basata sull’aritmetica e la geometria. Da ciò nacque l’interpretazione di André Chastel di Urbino come tribunale dell’Umanesimo matematico, che ebbe in Piero della Francesca il suo più grande interprete e la cui influenza può essere riferita all’opera di Bartolomeo della Gatta, l’unico a Urbino che sembrò capire Piero .

Federico mise mano ai problemi politici impellenti e iniziò una riorganizzazione dello stato, che comprendeva anche una ristrutturazione della città secondo un’orma moderna, confortevole, razionale e bella. Tutti i suoi sforzi, in quasi quarant’anni di governo, erano mirati a questo scopo, che, grazie ai suoi straordinari talenti uniti a una considerevole fortuna, giunse a un soffio dalla piena realizzazione. Il punto di riferimento in questo ambizioso progetto culturale fu subito Firenze e le sue novità legate all’umanesimo e al Rinascimento. Con la città toscana, già nel 1444, fu stabilita un’alleanza e un clima di protezione reciproca, che facilitò lo scambio di artisti e personalità.

Federico chiamò alla sua corte Leon Battista Alberti, Paolo Uccello, Luciano Laurana, Francesco di Giorgio Martini, che scrisse per lui il trattato di architettura, e il matematico Luca Pacioli. Grande interesse anche per la pittura fiamminga, a partire dagli anni settanta, tanto che il duca chiamò a lavorare con lui come Pedro Berruguete e Giusto di Gand, che svilupparono un felice dialogo tra la “realistica” tradizione figurativa nordica. e l’italiano “sintetico”. Giovanni Santi, padre di Raffaello, scrisse un racconto poetico dei principali artisti del periodo.

Il palazzo è stato discusso sulla forma che dovrebbe avere la “città ideale”, sulla prospettiva, sul patrimonio storico e morale degli “uomini illustri”.

Famosa la biblioteca del Duca, organizzata dall’umanista Vespasiano da Bisticci, ricca di codici con preziose pagine miniate.

Federico, attraverso le descrizioni di Baldassare Castiglione ne Il Cortegiano, introdusse i personaggi del cosiddetto “gentiluomo” in Europa, che rimase pienamente in auge fino al XX secolo.

Architettura, urbanistica, scultura
La prima impresa rinascimentale di Urbino fu il portale della chiesa di San Domenico, creato nel 1449 come un trionfale arco romano di Maso di Bartolomeo, chiamato in città per intercessione di Fra Carnevale, un pittore di Urbino inviato forse da Federico stesso il laboratorio di Filippo Lippi, uno dei tre più famosi pittori fiorentini dell’epoca (con Beato Angelico e Domenico Veneziano). Maso era un architetto fiorentino, scultore e orafo, già formatosi nel laboratorio di Donatello e Michelozzo, con il quale aveva lavorato alla cattedrale di Prato.

Palazzo Ducale e la città
«[Federico] costruì un palazzo, secondo molti, il più bello di tutta l’Italia; e di ogni opportunità che tanto bene l’ha fornita, che non sembrava un palazzo, ma una città nella forma di un palazzo. »

(Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano, I, 2)
Il progetto più ambizioso di Federico da Montefeltro fu la costruzione del Palazzo Ducale e, allo stesso tempo, l’assetto urbano di Urbino, che la rese la città “del principe”.

Prima dell’intervento di Federico, Urbino si presentava come una cittadina arroccata su due colline contigue, con una forma allungata e irregolare circondata da mura. L’asse stradale principale taglia la città lungo la parte inferiore tra le due colline, che da un lato verso il mare e l’altro verso i passi appenninici verso Perugia e il Lazio. La residenza ducale era un semplice palazzo sulla collina meridionale, a cui si aggiungeva un castello limitrofo, sul bordo della scogliera verso Porta Valbona.

La prima fase: Maso di Bartolomeo
Intorno al 1445 Federico si unì ai due antichi edifici ducali, chiamando gli architetti fiorentini (guidati da Maso di Bartolomeo) che costruirono un palazzo intermedio. Il risultato è stato l’edificio a tre piani della Jole, in stile austero, semplice e tipicamente toscano. L’interno era decorato con alcuni semplici accenti anticati negli arredi, come fregi e camini, incentrati sulla celebrazione di Ercole e sulle virtù militari.

La seconda fase: Luciano Laurana
Negli anni ’60 il progetto dell’edificio fu cambiato, per renderlo anche sede amministrativa e luogo di accoglienza di personaggi famosi. Dal 1466 circa i lavori passarono infatti a un nuovo architetto, il dalmata Luciano Laurana. Il nuovo cortile era il fulcro della nuova struttura, che collegava gli edifici precedenti. Il cortile ha forme armoniose e classiche, con un portico con archi a tutto sesto, oculi e colonne corinzie al piano terra, mentre il piano nobile è scandito da lesene e finestre architravate. Lungo i primi due corsi d’archi si eseguono iscrizioni in capitelli romani, il classico carattere epigrafico, così come quelli classici, per la precisione copiata da esemplari flavius, sono le maiuscole.

Da questo nucleo il palazzo fu poi esteso verso la città e nella direzione opposta. La facciata verso la città aveva una forma a “libro aperto” (in “L”) sul piazzale Duca Federico, appositamente allestita da Francesco di Giorgio Martini e successivamente chiusa sul lato nord dal lato della cattedrale. L’edificio divenne così il fulcro del tessuto urbano senza strappare e sottomettere, con la sua presenza, nemmeno l’autorità religiosa vicina.

Il fronte prospiciente Valbona fu invece completato con la cosiddetta “facciata dei Torricini”, leggermente ruotata a ovest rispetto agli assi ortogonali dell’edificio. Deve il suo nome alle due torri che fiancheggiano la facciata alta e stretta, ma ammorbidite nel mezzo dal ritmo ascendente di tre logge sovrapposte, ciascuna ripetendo il modello dell’arco trionfale. La facciata di Torricini non guarda verso l’abitato ma verso l’esterno, per questo è stata possibile una maggiore libertà stilistica, senza doversi occupare dell’integrazione con precedenti edifici, inoltre la sua presenza imponente è chiaramente visibile anche da lontano, come un simbolo di prestigio ducale.

La terza fase: Francesco di Giorgio
Nel 1472 Francesco di Giorgio Martini rilevò le opere, completando la facciata a “L”, occupandosi degli spazi privati, delle logge, del giardino pensile e forse del secondo piano del cortile, nonché del collegamento con le strutture sottostanti esterne le mura .. Ai piedi della rupe c’era infatti un grande spazio aperto, chiamato “Mercatale” come piazza del mercato, dove Francesco di Giorgio creò la rampa elicoidale, che permetteva a carri e cavalli di raggiungere l’edificio e il “Dati” o le grandi stalle poste a mezza altezza.

Negli spazi interni curati da Francesco di Giorgio c’è un cambio di gusto, segnato da una decorazione più sontuosa e astratta. Nonostante queste differenze, il palazzo è riuscito nel miracolo quasi miracoloso di equilibrare le varie parti in un complesso asimmetrico, condizionato dalle irregolarità del terreno e dagli edifici preesistenti, in cui il rigore delle singole parti equilibra la mancanza di un progetto unitario.

San Bernardino
Fuori dal palazzo fu Francesco di Giorgio Martini a indagare su alcuni problemi derivati ​​dalle riflessioni sviluppate a corte. Un esempio di questo è la chiesa di San Bernardino, costruita tra il 1482 e il 1491 dalla disposizione testamentaria del Duca, che intendeva essere sepolto lì. L’architetto utilizzava una pianta a croce latina a navata unica, con un piedicroce coperto da una volta a botte che si innesta sul presbiterio con una base rettangolare (leggermente appiattita sul lato del transetto, altrimenti simile a un quadrato), dove originariamente tre semicircolari si aprirono absidi (quello dietro l’altare maggiore fu poi abbattuto e sostituito da una nicchia rettangolare. L’effetto fu quello della “tricora”, di ispirazione tardoantica, ma realizzata con una spigolosità spaziale tipica della cultura urbana. L’esterno è quasi spoglio, con rivestimento in laterizio ravvivato solo dai cornicioni delle corde, dalle finestre e dal portale, l’interno è invece caratterizzato da pareti quasi nude, scandite dai volumi pieni e vuoti e con pochi dettagli di raffinata preziosità, come il grigio modanature sulle giunture strutturali (della memoria di Brunelleschi) o le colonne sugli alti plinti che sostengono la cupola e rendono più facile leggere il peso sul terreno. n in lettere maiuscole romane corre lungo tutto il perimetro e ricorda da vicino quello del cortile d’onore di Palazzo Ducale.

Fortezze militari
Mentre era a Urbino, Francesco di Giorgio Martini scrisse anche il Trattato di architettura, ingegneria e arte militare, dove i vari tipi di architettura furono presi in considerazione con un ampio richiamo alle illustrazioni create dall’artista stesso. Lo studio dei monumenti e dei testi fondamentali dell’architettura antica è stato attualizzato con un atteggiamento più elastico, aperto a soluzioni concrete ai problemi e allo sperimentalismo. In pratica questo atteggiamento è stato trovato nella creazione di numerose fortezze militari commissionate da Federico per la difesa del ducato. Anche se molti di questi edifici sono stati distrutti o pesantemente modificati, San Leo, Mondavio e rimangono quasi intattiSassocorvaro, che mostrano come le funzioni offensive e difensive siano integrate specificamente per l’orografia dei siti, con intuizioni empiriche spesso brillanti, che mettono da parte il complesse piante geometriche o zoomorfe rappresentate nel Trattato. Le bobine sono spesso composte come aggregazioni libere di solidi elementari (come torri cilindriche), ideali per la difesa passiva dei proiettili. Poche e sottilmente raffinate sono le decorazioni formali, come le cornici a corde che avvolgono elasticamente i perimetri o i mensoloni addensati che sostengono le passerelle che animano le cortine lisce.

Pittura e intarsio
La scuola locale di pittura fu inizialmente dominata da Fra Carnevale, allievo di Filippo Lippi e vari insegnanti di passaggio, tra cui Paolo Uccello, che visse ad Urbino tra il 1467 e il 1468 per dipingere la Predella dell’Ospedale Profanato. Secondo Vasari, tuttavia, nella città era presente fin dall’età di Guidantonio da Montefeltro Piero della Francesca, le cui prime tracce documentarie in città risalgono al 1469.

Piero della Francesca
Piero della Francesca è giustamente considerato uno dei protagonisti e promotori della cultura di Urbino, anche se non era marchigiano, né dalla nascita né dalla formazione, ma dalla Toscana. Ma fu a Urbino che il suo stile raggiunse un equilibrio insuperabile tra l’uso di rigorose regole geometriche e il respiro serenamente monumentale dei suoi dipinti. Il suo rapporto con la corte di Federico da Montefeltro non è pienamente chiarito, soprattutto per quanto riguarda la frequenza e la durata dei suoi soggiorni, come parte di una vita piena di movimenti scarsamente documentati. Almeno un soggiorno a Urbino tra il 1469 e il 1472 è considerato plausibile, dove ha portato il suo stile già delineato nei tratti fondamentali delle prime prove artistiche e sintetizzato nell’organizzazione prospettica dei dipinti, nella semplificazione geometrica che investe le composizioni e che singole figure, l’equilibrio tra immobilità cerimoniale e ricerca della verità umana, l’uso di una luce molto chiara che schiarisce le ombre e permea i colori.

Uno dei primi lavori forse legati ai patroni di Urbino è la Flagellazione, un’opera emblematica con più livelli di lettura che continua ad appassionare ricerche e studi. Il tavolo è diviso in due sezioni proporzionate al rapporto aureo: a destra, in campo aperto, tre figure in primo piano, mentre a sinistra, sotto una loggia, la scena della flagellazione si svolge in lontananza. Di Cristo proprio . La cornice prospettica molto precisa coordina i due gruppi, apparentemente non correlati tra loro, mentre i colori si abbinano e si esaltano a vicenda nella luce chiara, che proviene da fonti diverse. La fissità arcana dei personaggi è accresciuta da elementi insoliti dell’iconografia, in cui le domande e i fatti teologici degli eventi attuali sono mescolati.

Nel doppio Ritratto dei Duchi di Urbino (1465 circa) si nota già un’influenza della pittura fiamminga (è la pittura ad olio), nei paesaggi sbiaditi in profondità estremamente lontane e nella cura dei dettagli nelle immediate e prossime effigi dei duchi. Notevole è lo studio della luce (freddo e lunare per Battista Sforza, caldo per Federico), unificato da un forte rigore formale, un pieno senso del volume e alcuni trucchi, come la cornice rosso-rossa degli abiti di Federico, che isolano i ritratti facendoli incombere sullo spettatore.

Nella Madonna di Senigallia (1470 circa), ambientato in una sala del Palazzo Ducale, Piero fonde miracolosamente una composizione chiara e semplificata con l’uso della luce in modo poetico. Anche qui troviamo riferimenti ai fiamminghi, come la piccola stanza sullo sfondo dove si apre una finestra dove filtra un raggio di sole, illuminando i riflessi nella testa dell’angelo davanti.

Ma la ricerca sull’armonia tra rigore spaziale e verità luminosa ha avuto il suo migliore esito nella Pala di Brera (1472), già a San Bernardino, dove lo stesso Federico da Montefeltro si inginocchiava in veste di committente. Figure e ambientazioni architettoniche sono strettamente collegate, infatti i personaggi sono disposti a semicerchio occupando lo spazio dell’abside in cui è ambientata la scena. I pigmenti utilizzati non sono molti, ma l’uso di diversi leganti consente di ottenere effetti diversi mantenendo le tinte. Lo spazio è profondo e la luce è il suo protagonista astratto e immobile, che definisce forme e materiali nei più diversi effetti: dall’opacità oscura dei tessuti poveri dei santi, ai riflessi dell’armatura lucente di Federico.

Lo Studiolo e la Biblioteca
Lo Studiolo di Federico da Montefeltro (1473-1476) è praticamente l’unico degli interni del Palazzo Ducale ad aver ampiamente conservato la sua decorazione originale. Esiste una magnifica decorazione, con continui riferimenti tra l’architettura reale e quella illusionistica rappresentata nei famosi intarsi in legno (di Baccio Pontelli, Giuliano da Maiano e altri artisti per i disegni) e nei dipinti qui conservati.

Originariamente la parte superiore era infatti decorata con un fregio con ventotto ritratti di uomini illustri del passato e del presente, disposti su due registri, da Giusto di Gand e Pedro Berruguete, e oggi divisi tra il Museo del Louvre e la Galleria Nazionale delle Marche . (chi li tiene in un’altra stanza).

I ritratti, che includevano personalità civili ed ecclesiastiche, cristiane e pagane, furono intensificati da un punto di vista leggermente abbassato e dallo sfondo unificato che, grazie alla prospettiva, creò l’effetto di una vera galleria.

I colori abbaglianti e i continui riferimenti tra architettura reale e fantastica dovevano creare nello spettatore un effetto di grande meraviglia. Gli intarsi sono attribuiti a vari autori, come Giuliano da Maiano e, per i disegni, Botticelli, Francesco di Giorgio Martini e il giovane Donato Bramante. Tuttavia, spiccano gli intarsi di Baccio Pontelli, specializzati nelle complesse costruzioni prospettiche di oggetti geometrici, che creavano uno scambio continuo tra realtà e finzione, dilatando lo spazio altrimenti minuscolo della stanza.

Gli oggetti ritratti alludevano ai simboli delle Arti, ma anche alle Virtù (la mazza della Fortezza, la spada della giustizia, ecc.), Come se l’esercizio del primo aprisse la via alle Virtù stesse. Un ritratto di Federico era presente e chiariva l’allegoria del tutto, che esaltava il Duca come protagonista della parabola virtuosa dei significati etici e intellettuali della decorazione, che sosteneva il tema della solitudine pensosa, dell’etica e della contemplazione come nutrimento dell’azione.

Il ramo naturale dello Studiolo era la Biblioteca di Federico da Montefeltro, ora conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana, dove c’era una serie di dipinti sulle pareti con le arti liberali, simboleggiate da figure femminili su troni, composte fortemente accorciate da il basso, all’altezza dei gradini in uno spazio che idealmente ha continuato da un dipinto all’altro. Le Arti furono ritratte nell’atto di consegnare le loro insegne a Federico e ad altre figure di corte, investendole come vassalli ideali.

Patrimonio e influenza
Il clima rarefatto ed estremamente raffinato della corte di Federico riguardava essenzialmente il Palazzo, e al suo interno era esaurito, non favorendo lo sviluppo di una vera scuola locale. Alla morte del duca le attività artistiche subirono un innegabile arresto, ma grazie al ritorno a casa di artisti stranieri che avevano concordato vi fu una vasta diffusione della lingua di Urbino, con elaborazioni fruttuose. Gli esempi più evidenti sono gli sviluppi nel rapporto tra architettura reale e pittura, inaugurato da Piero della Francesca e dai curatori degli intarsi dello Studiolo, che è stato raccolto da Melozzo da Forlì, che lo ha esportato a Roma, e dal nascente Scuola perugina, soprattutto agli inizi di Pietro Vannucci, detto il Perugino.

Il clima nato nella signoria dei Montefeltro rimase comunque un pilastro nella cultura figurativa locale, influenzando la formazione di due dei principali interpreti del pieno Rinascimento, originari di Urbino: Raffaello e Bramante.

Il sedicesimo secolo
Con l’estinzione del Montefeltro Urbino rimase una brillante corte rinascimentale, anche se non più all’avanguardia dell’avanguardia, grazie a Della Rovere. La corte, dotata di grande eleganza e gusto, fu committente di Tiziano, che creò per esempio la famosa Venere di Urbino. Nei primi decenni del Cinquecento, la produzione delle famose ceramiche storiche raggiunse il suo apice, con artisti come Francesco Xanto Avelli e Niccolò Pellipario, detto Nicola da Urbino, seguiti nella seconda metà del secolo dai fiorenti negozi di la Fontana e dei Patanazzi. A quel tempo la città divenne un centro all’avanguardia della produzione pittorica controriformata, grazie a Federico Barocci.