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Rinascimento padovano

Il Rinascimento a Padova ebbe un inizio che fu unanimemente fatto coincidere con l’arrivo dello scultore fiorentino Donatello, dal 1443. Qui, grazie ad un ambiente particolarmente predisposto e prolifico, si sviluppò una scuola d’arte che, per la sua precocità e ricchezza di idee, fu l’origine della diffusione dell’arte rinascimentale in tutto il Nord Italia.

Secondo lo storico francese André Chastel, il Rinascimento padovano, chiamato “epigrafico e archeologico”, fu una delle tre componenti fondamentali del Rinascimento delle origini, insieme a quello fiorentino, “filologico e filosofico”, e quello Urbinate, chiamato “matematico”.

Contesto storico e culturale
Nonostante la sua vicinanza fisica a Venezia (poco più di 30 km), Padova fu una delle ultime città veneziane a perdere la propria indipendenza entrando nell’orbita della Serenissima, dal 1405. La perdita di una corte nobile come propulsore artistico fu ampiamente compensata da una lunga tradizione pittorica, inaugurata dal soggiorno di Giotto nella prima metà del Trecento, dalla fiorente Università e dalla ininterrotta devozione a Sant’Antonio, attorno alla quale si sviluppò un importante santuario, legato a una serie continua di iniziative artistiche e architettoniche.

Dopo tutto, Padova rappresentava allora il luogo in cui si studiava l’antico con le armi della filologia, della storia e dell’archeologia. La ricostruzione del passato attraverso tutti i tipi di fonti e reperti disponibili, chiamati “antiquari”, aveva una tradizione che risale alla fine del XIII secolo, riutilizzata dal soggiorno di Petrarca nel 1349. Mentre si trovava nello Studio (l’Università) fiorita una cultura Averroista e aristotelica, rivolta soprattutto all’indagine scientifica e secolare del mondo fisico e naturale (anziché teologia e metafisica), la signoria dei Carraresi fu modellata principalmente su modelli romani / imperiali, in contrasto con la cultura bizantina di Venezia.

I contatti con Firenze furono precoci, grazie al soggiorno durante i rispettivi esuli di figure di spicco come Cosimo il Vecchio e Palla Strozzi, così come alcuni artisti toscani.

Ma fu soprattutto il mondo degli studiosi locali a creare un terreno fertile per l’adesione dell’Umanesimo e del Rinascimento. Questi studiosi nell’evocazione degli antichi hanno studiato e studiato le vestigia romane, in particolare le epigrafi, giungendo a una fantastica evocazione in cui gli elementi classici originali e quelli di “stile” moderno si sono talvolta fusi senza un esame critico. Tra di loro c’era Ciriaco d’Ancona, che trasformò il Mediterraneo in cerca di monumenti antichi, o Felice Feliciano, antiquario, amico e ammiratore di Mantegna.

Scultura

Donatello
A Padova potrebbe svilupparsi un legame significativo e precoce tra l’umanesimo toscano e gli artisti del nord. Molti artisti toscani erano attivi nella città veneziana tra gli anni Trenta e Quaranta del Quattrocento: Filippo Lippi (dal 1434 al 1437), Paolo Uccello (1445) e lo scultore Niccolò Baroncelli (1434-1443).

Fondamentale in questo senso, tuttavia, fu l’arrivo a Firenze del maestro fiorentino Donatello, il padre del Rinascimento nella scultura, che lasciò opere memorabili come il monumento equestre al Gattamelata e l’altare del Santo. Donatello rimase in città dal 1443 al 1453, richiedendo anche la preparazione di un negozio. I motivi per cui Donatello se n’è andato non sono chiari, forse legati a motivi contingenti, come la scadenza del contratto di locazione del suo negozio, forse legato all’ambiente fiorentino che ha iniziato a essere meno favorevole alla sua rigorosa arte. L’ipotesi che Donatello si fosse mosso su invito del ricco banchiere fiorentino in esilio Palla Strozzi non è supportata da alcuna conferma.

A Padova, l’artista ha trovato un aperto, fervente e pronto a ricevere la novità del suo lavoro all’interno di una cultura già ben caratterizzata. Donatello ha anche assorbito stimoli locali, come il gusto per la policromia, l’espressionismo lineare di origine germanica (presente in molte statue veneziane) e la suggestione degli altari in legno o dei polittici misti di scultura e pittura, che probabilmente ispirarono l’altare del Santo .

Il crocifisso
La prima opera certamente documentata di Donatello a Padova è il Crocifisso della Basilica del Santo (1444-1449), un’opera monumentale in bronzo che oggi fa parte dell’altare del Santo nella Basilica di Sant’Antonio da Padova, ma che al il tempo era nato come un’opera indipendente. La figura di Cristo è modellata con grande precisione nella resa anatomica, nelle proporzioni e nell’intensità espressiva, acuita da un taglio asciutto e asciutto della muscolatura dell’addome. La testa è un capolavoro per il rendering nel più piccolo dettaglio, con i capelli della barba e dei capelli modellati meticolosamente e per l’emotività straziante ma composta di sofferenza nel momento vicino alla morte terrena.

L’altare del Santo
Forse grazie alla risposta positiva del Crocifisso, intorno al 1446 ricevette una commissione ancora più imponente e prestigiosa, la costruzione dell’intero altare della Basilica del Santo, un’opera composta da quasi venti rilievi e sette statue di bronzo a tutto tondo, che ha lavorato fino alla partenza dalla città. La struttura architettonica originale, smantellata nel 1591, è andata perduta del complesso più importante, e conoscendo l’estrema attenzione con cui Donatello ha definito i rapporti tra le figure, lo spazio e il punto di vista dell’osservatore, è chiaro che è una perdita significativa. L’attuale accordo risale a una ricomposizione arbitraria del 1895.

L’aspetto originale doveva ricordare una “conversazione sacra” tridimensionale, con le figure dei sei santi a tutto tondo disposte intorno a una Madonna col Bambino sotto una sorta di chioma poco profonda contrassegnata da otto colonne o pilastri, posta vicino agli archi del ambulatoriale, non all’inizio del presbiterio come oggi. La base, adornata di rilievi su tutti i lati, era una sorta di predella.

L’effetto generale deve essere stato quello di una propagazione del moto in successive ondate sempre più intense, a partire dalla Vergine al centro, che è stata ritratta nell’atto bloccato a salire dal trono per mostrare il Bambino ai fedeli. Le altre statue a tutto tondo (i santi Francesco, Antonio, Giustina, Daniele, Ludovico e Prosdocimo) hanno gesti naturali e calmi, segnati da una solennità statica, da un’economia di gesti ed espressioni che evita tensioni espressive troppo forti e che contrastano con le scene drammatiche di rilievi con i miracoli del santo, che sono circondati da alcuni rilievi minori, cioè i pannelli dei quattro simboli degli Evangelisti e dei dodici putti.

I quattro grandi pannelli che illustrano i Miracoli di Sant’Antonio sono composti da scene affollate, in cui l’evento miracoloso si confonde con la vita di tutti i giorni, ma sempre immediatamente identificabile grazie all’utilizzo di linee di forza. Sullo sfondo si aprono maestosi fondali di architetture straordinariamente profonde, nonostante il rilievo molto basso. Molti temi sono presi da monumenti antichi, ma ciò che colpisce di più è la folla, che per la prima volta diventa parte integrante della rappresentazione. Il miracolo dell’asino è tripartito con archi scorciati, non proporzionati alla dimensione dei gruppi di figure, che amplificano la solennità del momento. Il Miracolo del pentito pentito è ambientato in una sorta di circo, con le linee oblique dei gradini che dirigono lo sguardo dello spettatore verso il centro. Il miracolo del cuore dell’avar ha una narrazione stretta che mostra allo stesso tempo gli eventi chiave della storia che fanno dell’osservatore un movimento circolare guidato dalle braccia delle figure. Nel Miracolo del neonato, che alla fine parla di alcune figure in primo piano, poste di fronte ai pilastri, sono di dimensioni maggiori perché sono proiettate illusionisticamente verso lo spettatore. In generale, la linea è articolata e vibrante, con bagliori di luce esaltati dalla doratura e dall’argento (ora ossidato) delle parti architettoniche.

Nella Deposizione di pietra, forse a causa del lato posteriore dell’altare, Donatello rielaborò l’antico modello della morte di Melagro; lo spazio viene cancellato e nella composizione rimangono solo il sarcofago e uno schermo unitario di figure dolenti, sconvolte nei loro tratti grazie a espressioni facciali e gesti esasperati, con un dinamismo accentuato dai contrasti delle linee che generano soprattutto angoli acuti. La linea dinamica, esaltata dalla policromia, risalta. In questo lavoro, di fondamentale impatto per l’arte del nord Italia, Donatello ha rinunciato ai principi di razionalità e fiducia nell’individuo tipicamente umanistico, che negli stessi anni ha invece reiterato in Gattamelata. Questi sono i primi sintomi, letti con estrema prontezza dall’artista, della crisi degli ideali del primo Rinascimento maturata nei decenni successivi.

Il monumento equestre al Gattamelata
Risale probabilmente al 1446 la commissione degli eredi del capitano di ventura Erasmo da Narni, detto Gattamelata (morto nel 1443), per costruire il monumento equestre del condottiero nella piazza antistante la Basilica del Santo. L’opera in bronzo, che permise all’artista di provare il tipo squisitamente classico del monumento equestre, fu completata nel 1453.

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Concepito come cenotafio, sorge in quella che all’epoca era un’area cimiteriale, in una posizione attentamente studiata rispetto alla vicina basilica, che è leggermente sfalsata rispetto alla facciata e al lato, in asse con un’importante strada d’accesso, garantendo visibilità da più punti di vista.

Non ci sono precedenti recenti per questo tipo di scultura: le statue equestri del XIV secolo, nessuna in bronzo, di solito sormontarono le tombe (come l’arca scaligera); ci sono precedenti nella pittura, tra cui il Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini e Giovanni Acuto di Paolo Uccello, ma probabilmente Donatello ne derivò più di modelli classici: la statua equestre di Marco Aurelio a Roma, il Regisole di Pavia e i Cavalli di San Marco, da cui riprende la via del cavallo che avanza verso il gradino con la faccia rivolta verso il basso.

In ogni caso Donatello ha creato un’espressione originale, basata sul culto umanistico dell’individuo, in cui l’azione umana è guidata dal pensiero. Nell’opera, collocata su un alto basamento, la figura dell’uomo è idealizzata: non è un ritratto del vero vecchio e malato prima della morte, ma una ricostruzione ideale, ispirata alla ritrattistica romana, con una fisionomia precisa, certamente non casuale. Il cavallo ha una posizione bloccata, grazie all’espediente della palla sotto lo zoccolo, che funge anche da punto di scarico per le forze statiche. Il capo, con le gambe distese sulle staffe, fissa un punto distante e tiene tra le mani il bastone del comando in posizione obliqua che con la spada nel fodero, sempre in posizione obliqua: questi elementi fungono da contrappunto alle linee orizzontali del cavallo e alla verticale del condottiero accentuando il movimento in avanti, enfatizzato anche dalla leggera deviazione della testa. Il monumento era un prototipo per tutti i successivi monumenti equestri.

Altri
L’eredità di Donatello fu capita e utilizzata solo in minima parte dagli scultori locali (tra cui Bartolomeo Bellano), mentre ebbe un effetto più forte e duraturo sui pittori. Nella seconda metà del XV secolo alcuni scultori lavorarono a Padova, soprattutto dal Veneto e dalla Lombardia, arruolati nella costruzione della Basilica del Santo, in particolare nella Cappella dell’Arca.

Nel 1500, grazie al lascito (1499) del generale Francesco Sansone di Brescia, furono iscritti i fratelli Lombardo. Ad esempio, Tullio Lombardo fu l’autore del rilievo del Miracolo della gamba riattaccata, con un’illusione della prospettiva di Donatello, ma una composizione isocefalica delle figure in primo piano, secondo quella semplificazione geometrica che si era diffusa nella pittura con Antonello da Messina e altri. Nel 1501 ricevette la commissione per un secondo rilievo raffigurante la Morte di Sant’Antonio, mai realizzato. Più tardi, con suo fratello Antonio, creò un pannello con Sant’Antonio che fa parlare un neonato (1505).

La diffusione della moda antiquaria stimolò quindi la nascita di una vera moda di bronzi vecchio stile, che aveva il suo centro a Padova. L’interprete di maggior successo di questo genere fu Andrea Briosco, detto Il Riccio, che iniziò una produzione in grado di competere con i laboratori fiorentini.

Pittura

Squarcione e i suoi studenti
Come era accaduto a Firenze, la lezione di Donatello aveva nella scultura solo seguaci parziali, e serviva come modello soprattutto per i pittori, specialmente per quanto riguarda l’enfasi prospettica e la linea intesa come l’elemento generatore della forma.

Ciò avvenne sostanzialmente nel laboratorio di Francesco Squarcione, un artista / impresario che accolse artisti di varie origini, trasmettendo loro i segreti del mestiere e l’antica passione. Il suo amore per l’antico, che negli anni venti del quindicesimo secolo lo aveva portato forse in Grecia, era legato nelle sue opere a uno stile tardo-gotico e una preferenza per la linea elaborata e tagliente, che salta fuori le figure e esalta il panneggio. Nella Madonna col Bambino degli Staatliche Museen di Berlino, modellato da una targa di Donatello, ci sono gli elementi tipici che ha trasmesso ai suoi studenti: festoni di fiori e frutta, colori intensi e di marmo, linee forti e forme squadrate.

Dal suo insegnamento ogni studente ha avuto esiti diversi, a volte opposti, dal severo classicismo del Mantegna, alla fantastica esasperazione dei cosiddetti “squarcioneschi”, come Marco Zoppo, Carlo Crivelli e lo Schiavone (Giorgio Çulinoviç). Questi ultimi, anche con le loro rispettive variazioni personali, sono accomunati da una preferenza per i contorni netti e spezzati, colori intensi che fanno assomigliare pelle e pietra e tessuti smaltati si somigliano, l’uso di elementi antichi per decorazioni con un gusto erudito e l’applicazione di un più intuitivo della prospettiva scientifica. Alcuni di loro, come Zoppo e Schiavone, furono influenzati anche dalla lingua Pierfrancescana, arrivati ​​a Padova intorno agli anni Cinquanta attraverso il cantiere della cappella Ovetari.

Più tardi, quando in città e nel Veneto in generale, le influenze del modo naturalistico veneziano si fecero più forti, lo stile esasperato degli squarcioneschi fu superato, e si spostarono in centri più periferici lungo le coste del Mare Adriatico, dando origine ad una peculiare cultura pittorica “adriatica”, con esponenti dalle Marche alla Dalmazia.

La cappella Ovetari e la formazione del Mantegna
Le varie tendenze che animarono la vita artistica padovana si trovarono a contatto con la decorazione della cappella Ovetari nella chiesa della famiglia Eremitani, iniziata nel 1448. Fu commissionato un gruppo eterogeneo di artisti per la realizzazione degli affreschi, che andavano dal più antico Giovanni d ‘Alemagna e Antonio Vivarini (sostituiti nel 1450 – 1451 da Bono da Ferrara e Ansuino da Forlì, stilisticamente legati all’esempio di Piero della Francesca), ai più giovani Niccolò Pizzolo e Andrea Mantegna. Andrea in particolare, all’inizio della sua carriera dopo il suo apprendistato nel laboratorio di Squarcione, dipinse con una precisa applicazione della prospettiva unita a una rigorosa ricerca antiquaria, molto più profonda di quella del suo maestro.

Nelle Storie di San Giacomo (1447 – 1453, distrutte nel 1944) c’erano numerosi dettagli presi dall’antichità (armature, costumi, architettura), ma a differenza dei pittori “squarcioneschi” non erano semplici decorazioni di gusto erudito, ma contribuivano a fornire una vera ricostruzione storica degli eventi. L’intenzione di ricreare la monumentalità del mondo antico giunge a conferire alle figure umane una certa rigidità, che le fa apparire come statue. L’episodio del Martirio di San Cristoforo appare più fuso, dipinto nella fase finale delle opere (1454 – 1457), dove l’architettura acquisì un tratto illusionistico che era una delle caratteristiche fondamentali dell’intera produzione del Mantegna. In effetti, il muro sembra aprire una loggia, dove è ambientata la scena del martirio e del trasporto, con un ambiente più arioso e edifici presi non solo dal mondo classico. Le figure, anch’esse ricavate dall’osservazione quotidiana, sono più sciolte e identificate psicologicamente, con forme più morbide, che suggeriscono l’influenza della pittura veneziana, in particolare di Giovanni Bellini, di cui Mantegna, dopo tutto, aveva sposato sua sorella nel 1454.

Il cambio di direzione divenne inequivocabile nella realizzazione successiva, la Pala di San Zeno, dipinta a Padova per una chiesa a Verona, commissionata nel 1456 e terminata nel 1459, con un’originale cornice in legno dorato. I pannelli principali dell’opera ospitano una conversazione sacra, inserita in un portico quadrangolare aperto, che è ovviamente ispirato all’altare del Santo di Donatello. Molto attento fu lo studio dell’ubicazione finale dell’opera, con le linee prospettiche disegnate sulla base del coro della chiesa vista dalla navata e della luce da destra, che coincideva con quella proveniente da una finestra aperta a la richiesta esplicita del pittore. Ancor più che negli affreschi degli Eremitani, la pittura è orientata verso una fusione di luce e colore che dà effetti illusionistici, con citazioni del virtuosismo antico e prospettico che furono ulteriormente sviluppate dall’artista nel lungo soggiorno mantovano, dal 1460.

Anni dopo
Negli anni seguenti, Padova perse il suo ruolo di radiatore culturale soppiantato dalla vicina Venezia. In tutto il Cinquecen sono stati registrati importanti eventi artistici, ma con un ruolo praticamente passivo, in cui artisti stranieri hanno lasciato i loro capolavori prima di partire. Qui c’erano Lorenzo Lotto, Romanino e soprattutto il giovane Tiziano, che già negli affreschi della Scuola del Santo ha creato un primo, innovativo capolavoro, staccandosi dalla tradizione giorgioniana e ponendo invece l’accento sulle masse di colore usate in modo espressivo e sull’eloquente dinamismo delle azioni. Allo stesso tempo, altri artisti veneziani hanno lavorato, come Domenico Campagnola, Bartolomeo Montagna e altri, ma non possiamo parlare di una vera “scuola”, almeno non di rilievo nel contesto italiano.

Eredità
Padova, fin dai primi anni dopo la metà del XV secolo, era diventata il principale punto d’incontro tra le novità della prospettiva toscana e i pittori attivi nelle città settentrionali. Molti insegnanti hanno avuto una giovane esperienza a Padova: tra i più importanti, oltre a Mantegna, pittore dei Gonzaga a Mantova, c’erano Cosmè Tura, padre della scuola ferrarese, Vincenzo Foppa, capo allenatore a Milano, Carlo Crivelli, esponente di spicco di pittura nelle Marche del secondo Quattrocento.

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