Arte milanese nel XVI secolo

L’arte della seconda metà del XVI secolo a Milano si sviluppò, qui come altrove, su più linee e stili che possono essere riassunti nel manierismo, nell’arte controriformata e nel classicismo. Queste correnti dividevano la scena artistica urbana, spesso sotto mutua contaminazione.

La scena milanese della seconda metà del XVI secolo deve quindi essere analizzata considerando la particolare posizione della città: se per l’impero spagnolo rappresentava un avamposto militare strategico, dal punto di vista religioso era al centro del conflitto tra la Chiesa cattolica e la Chiesa riformata. Di conseguenza il maggior contributo è stato dato dall’arte religiosa di fronte a una produzione civile artistica e architettonica inferiore.

Adottando lo stile manierista, i clienti e gli artisti urbani hanno avuto come riferimento esperienze di derivazione centro-italiana, la posizione della città vicino alla Svizzera protestante ha fatto di Milano uno dei principali centri di fioritura ed elaborazione di arte controriformata, grazie all’azione capillare di San Carlo Borromeo.

Pittura
La pittura milanese della seconda metà del XVI vide la collaborazione tra la scuola locale legata al tardo rinascimento lombardo e artisti esterni, in particolare di Cremona, che avrebbero fortemente influenzato la futura scena pittorica milanese. A un dipinto di stampo religioso e fortemente controllato da San Carlo, poi deve controbilanciare una forte componente naturalistica, che proprio per il forte controllo dell’autorità ecclesiastica non poteva svilupparsi pienamente: Caravaggio, massimo esponente del naturalismo lombardo, ebbe in fatto maggiore fortuna al di fuori dei confini del ducato.

La presenza contemporanea di artisti di diverse tradizioni dell’Italia centro-settentrionale è stata fondamentale nella formazione di Caravaggio, che poteva utilizzare un maestro di scuola veneziana mitigata da immagini pittoriche controriformi, contatto con artisti cremonesi che importano una tradizione legata alla scuola emiliana e infine , una scuola lombarda dell’eredità di Leonardo, a seconda dei casi, più o meno influenzata da viaggi di aggiornamento sui modelli del manierismo centro-italiano.

Scuola locale
Tra i maggiori interpreti della scuola milanese troviamo sicuramente Giovanni Paolo Lomazzo: formatosi nel laboratorio di Giovan Battista della Cerva, a sua volta allievo di Gaudenzio Ferrari, ha iniziato a studiare studiando le modelle, oltre alla Ferrari, di Bernardino Luini. Alla formazione sui modelli del Rinascimento lombardo, il Lomazzo arricchì la sua formazione con un viaggio nell’Italia centrale, dove poté confrontarsi con Tibaldi e le opere di Michelangelo; da questo suo percorso disegna il suo stile che fonde la tradizione lombarda, principalmente gaudenziana, con un linguaggio manierista italiano centrale. Se le sue prime opere sono per lo più perdute, non ha ancora una grande produzione a causa della malattia che lo ha portato alla cecità in pochi anni: tra i suoi dipinti ricordiamo la Crocifissione (1570) per la chiesa di San Giovanni in Conca, commentato dal pittore stesso in uno dei suoi trattati per la resa cromatica e per la particolare modulazione luministica; tuttavia, per essere considerata la più grande opera del Lomazzo è il ciclo di affreschi della cappella Foppa.

I lavori della cappella Foppa nella chiesa di San Marco, tra cui la Gloria Angelica nel catino absidale, la caduta di Simon Magus sulla parete sinistra, un San Paolo scomparso che resuscita Eutico a destra e la pala d’altare della Madonna col Bambino rappresentano una summa del tentativo del pittore del recupero della tradizione lombardo-leonardesca. Il profilo pittorico è un chiaro riferimento alla cupola del Santuario della Beata Vergine dei Miracoli a Saronno di Gaudenzio Ferrari, con la caratterizzazione dei personaggi di Leonardo da Vinci; la scelta dei temi del lavoro indica infine una scelta anti-tematica e contro-forma del pittore. L’importanza dell’opera di Lomazzo è testimoniata dai numerosi rimproveri dello schema dell’opera, compresi quelli di Carlo Urbino o di Ottavio Semino.

Negli ultimi anni della sua carriera è significativa la tela dell’Orazione di Cristo nel giardino per la chiesa di Santa Maria dei Servi, nella quale è annotato il cambio del registro del pittore. Se il lavoro mostra una caratterizzazione dei personaggi tipici del primo Leonardo di Milano, c’è un gioco cromatico di luci e ombre dato dalla scena notturna di Correggio e Albrecht Dürer, simile all’opera dei fratelli Campi nella chiesa di San Paolo Converso.

Dopo la conclusione della sua opera più importante, Lomazzo perse gradualmente l’uso della vista fino a diventare cieco a causa della degenerazione di una malattia nei suoi occhi: questo gli impedì di continuare la sua carriera come pittore, tuttavia gli permise di dedicarsi a varie opere letterarie tra cui il trattato dell’idea del tempio della pittura, o un compendio sulla pittura sulle orme dell’opera di Vasari. Tra le conclusioni che Lomazzo disegna nelle sue opere, vi è l’uso di “modi diversi” per ottenere uno stile perfetto, lodando il design di Michelangelo, il colore di Tiziano e Correggio, e le proporzioni di Raffaello: basta che i pittori raggiungano la via giusta è il confronto tra pittura e tempio, sostenuto da sette governatori come colonne per sostenerlo: oltre agli artisti appena citati si aggiungono Leonardo, Polidoro da Caravaggio, Mantegna e Gaudenzio Ferrari. L’autore dà anche un giudizio sul tipo più nobile di pittura, considerando l’affresco come l’opera più preziosa e mette a confronto l’opera del pittore con l’opera della creazione divina.

Il Lomazzo va quindi oltre una guida alla pittura per confluire in aspetti quasi filosofici, giudicando la pittura come unica fonte di conoscenza della “bellezza di tutte le cose”, da cui poi un inventario delle cose in cui si sarebbe formata la bellezza, da ” donne e bambini “a” draghi e mostri “, commentando i dettagli più disparati, come” l’ombra sotto il pesce “. Infine, il testo si conclude con un commento sulla moda dell’era wunderkammer, sintomatico della loro varietà e invenzione dell’arte del tempo.

Famoso per le sue bizzarre composizioni, Giuseppe Arcimboldi, comunemente noto come Arcimboldo, fu addestrato nel laboratorio del padre e iniziò la sua carriera come fumettista per le vetrate del Duomo di Milano. Nel 1562 aveva già abbastanza fama per essere chiamato alla corte di Praga di Rodolfo II, dove portava il suo gusto particolare sui temi delle sue opere e lavorava come consulente per l’imperatore wunderkammer; tornò a Milano solo nel 1582 dove continuò la sua attività di pittore, pur mantenendo stretti contatti con la corte di Praga. Lo stile dei ritratti dell’Arcimboldo, fatto dalla composizione di frutta e verdura per dare elementi antropomorfi, era uno dei più particolari del periodo e il suo stile era spesso imitato: in passato a volte era difficile identificare il lavoro autografo del pittore con fiducia. così tante erano le opere nello stile del pittore. Tra le opere più famose troviamo le Quattro Stagioni, I Quattro Elementi e Rudolph II nelle vesti di Dio Vertumno. La ciotola di verdure e la testa con cesto di frutta sono piuttosto particolari, che fanno parte di una serie di opere che, a seconda del layout invertito o non organizzato, assumono l’aspetto di un ritratto o di una semplice natura morta.

Giovanni Ambrogio Figino era uno studente di Lomazzo, ma terminò la sua formazione in un viaggio di aggiornamento tra Genova e Roma, dove concentrò i suoi studi in particolare su Michelangelo e Raffaello: questo soggiorno romano influenzò decisamente il suo stile molto più di quanto non avesse fatto con il suo insegnante. Perduti molti dei suoi primi lavori, alla giovane età del pittore si possono risalire i dipinti di San Marco e San Parolo per la chiesa di San Raffaele e la Madonna della Serpe per la chiesa di San Fedele, che si ispirò allo stesso soggetto Caravaggio. Tuttavia, la fama del pittore raggiunse la fine degli anni ottanta, con i dipinti della Madonna col Bambino con i santi Giovanni Evangelista e Michele Arcangelo (1588) per il collegio dei giuristi e Sant’Ambrogio a cavallo (1590) per la cappella delle disposizioni . Il Figino si avventurò anche nella ritrattistica, che ricorda il ritratto di Lucio Foppa, descritto anche da cronache del tempo per l’attenzione ai dettagli degli oggetti della pittura come i riflessi dell’armatura e la particolare resa del pizzo. All’apice della sua fama, tra la fine del sedicesimo e l’inizio del diciassettesimo secolo, fu chiamato alla corte dei Savoia per dipingere la Grande Galleria del Palazzo Reale di Torino.

Un discorso speciale deve essere fatto per Aurelio Luini, figlio del più famoso Bernardino da cui ha ereditato il negozio e le commissioni per la chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore, dove dal 1555 firmò gli affreschi delle Storie del Diluvio, alcune lunette del muro absidale e soprattutto l’Adorazione dei Magi per la controfacciata, in cui il pittore mostra già un linguaggio pieno di tensione e ispirato ai disegni di Leonardo che inseriscono Aurelio Luini tra gli eredi dei milanesi Leonardeschi insieme a Lomazzo . Tuttavia fu vietato alla professione del pittore nella città da parte dell’Arcivescovo Borromeo per ragioni mai chiarite fino alla morte di quest’ultimo. Tra le sue opere più famose, c’è la pala per il Duomo di Milano di Santa Tecla, che mostra un’alta tensione compositiva già riscontrata nel Martirio di San Vincenzo per la chiesa di San Vincenzo alle Monache, uno stile pittorico che si pensa essere stata la base dell’inimicizia con il cardinale Borromeo.

Infine vale la pena spendere alcune parole non su un autore in particolare, ma sul tema della natura morta. Questo tema trova a Milano e in Lombardia in generale uno dei suoi primi luoghi di diffusione, favorito tra l’altro dal patrimonio leonardesco. Tra i primi produttori di still life troviamo i milanesi Ambrogio Figino, Fede Galizia e il Cremonese Panfilo Nuvolone: ​​in questo primo periodo le nature morte sono spesso dipinte in una prospettiva malinconica di una bellezza transitoria e di una natura corruttibile dal passare del tempo; tuttavia non ci sono riferimenti simbolici o mistici, un sintomo di un residuo controllo ecclesiastico sull’arte. Caravaggio, così ispirato al naturalismo della tradizione lombarda, non rimase del tutto estraneo a questo fenomeno, avventurandosi nella Fruit Canestra, l’unica natura morta autonome del pittore.

Scuole esterne
La scuola più presente a Milano dopo la scuola locale è senz’altro la scuola cremonese degli artisti, quindi in un periodo di fioritura per via dei cantieri del Duomo di Cremona. Le due scuole, tuttavia, entrarono spesso in conflitto, in particolare il confronto tra il milanese Giuseppe Meda e Giuseppe Arcimboldo nel 1563 e il cremonese Bernardino Campi e Carlo Urbino in un concorso per la progettazione del gonfalone di Milano e nel 1564 sempre tra i Meda e i fratelli Bernardino, Antonio e Giulio Campi in un concorso per i disegni delle porte dell’organo del Duomo di Milano, entrambi vinti da interpreti milanesi.

Il primo ad arrivare a Milano fu Bernardino Campi nel 1550, chiamato dal governatore Ferrante Gonzaga che gli commissionò una serie di ritratti di sua figlia Ippolita grazie alla sua reputazione di ritrattista, a cui fecero seguito un gran numero di commissioni di tutti i milanesi nobiltà. Il Campi ha introdotto un dipinto ispirato allo stile di Parmigianino nel panorama artistico milanese, in netta antitesi con la pittura del patrimonio leonardesco e gaudenzioso fino ad allora in voga nella città, anche con l’aiuto di numerosi aiutanti tra cui Carlo Urbino: se il dipinto dei Campi era decisamente raffinato ed elegante, il pittore non aveva un livello altrettanto alto di creatività nei modelli e nelle soluzioni, per cui ricorreva spesso all’aiuto dell’Urbino, un valido pittore, ma un eccellente compositore di temi e modelli per i più svariati lavori. La fama di Bernardino Campi aumentò nei due decenni seguenti a tal punto che l’opera commissionata fu così numerosa che alcune sue opere furono eseguite direttamente dal suo collaboratore Urbino: la pala d’altare della Madonna col Bambino e santi (1565) per la chiesa di Sant’Antonio Abate, firmato e dipinto dai Campi di cui sono disponibili i modelli preparatori di Carlo Urbino.

Oltre a questa prolifica collaborazione, Carlo Urbino, ovviamente, dipinse da solo, sperimentando dipinti di più tradizione lombarda come Pentecoste per la cappella di San Giuseppe nella chiesa di San Marco, che riprende lo schema della Gloria Angelica del Lomazzo dipinta nella stessa chiesa di Cappella Foppa: tuttavia la collaborazione con Bernardino Campi e le sue opere successive contribuirono a introdurre a Milano un manierismo più attento alle esperienze dell’Emilia e dell’Italia centrale che segnarono l’ingresso definitivo delle commissioni “estere” nella nobiltà milanese . In questo senso, Carlo Urbino lavorò tra il 1557 e il 1566 nella decorazione della chiesa di Santa Maria presso San Celso e per i dipinti commissionati da Isabella Borromeo.

La fama che Bernardino Campi aveva ottenuto favorì l’arrivo a Milano di altri protagonisti della scuola cremonese, tra cui i fratelli Giulio Campi, per una crocifissione (1560) nella chiesa di Santa Maria della Passione e Antonio Campi con la tela della Resurrezione di Cristo (1560) per la chiesa di Santa Maria a San Celso, dove vediamo la combinazione dell’illusione e del futuro luminismo ripresi nelle opere di St Paul Stories per l’omonima chiesa, dove i due fratelli lavoravano insieme: tra i risultati più significativi del ciclo sono la Conversione di San Paolo (1564) in cui Antonio Campi si ispira ai personaggi sullo sfondo all’opera di Giulio Romano nella Sala di Troia di Palazzo Ducale a Mantova e nella Decollazione del Battista ( 1571), che per l’ambiente povero e l’effetto luminoso della torcia che interrompe l’oscurità della scena nel gruppo centrale non ha mancato di influenzare il giovane Caravaggio. Nella chiesa di Sant’Angelo sempre di Antonio Campi si trovano i dipinti del Martirio di Santa Caterina (1583) e Santa Caterina nella prigione visitata dall’imperatrice Faustina (1584), dipinti in ambienti bui con la presenza di molteplici fonti di luce grazie al quale Campi tentò la sua mano in un intelligente gioco di chiaroscuri da cui Caravaggio avrebbe imparato tanto nell’uso dell’effetto della “luce radente” [119]. Infine, nella chiesa di San Paolo Converso c’è la maggiore realizzazione di Antonio Campi, con la collaborazione del fratello Vincenzo, della decorazione ad affresco della volta con l’Assunzione di Gesù (1586-1589) in cui i fratelli si avventurarono in un raro esempio di illusionismo quadratico ispirato alla soluzione mantovana di Giulio Romano, in cui si nota l’adesione al trattato prospettico delle Due Regole della prospettiva pratica di Jacopo Barozzi da Vignola: la chiesa, gestita dalle monache della famiglia Sfondrati Cremonese , è stato fondamentale per interrompere la chiusura della scuola milanese ad altre esperienze, affidando quasi tutte le commissioni agli artisti cremonesi.

Nonostante l’accesa rivalità tra scuole cremonesi e milanesi, i pittori cremonesi e in particolare i fratelli Campi non hanno mancato di influenzare l’arte milanese nei prossimi anni, forse ancor più di quanto non abbiano influenzato la pittura cremonese. La formazione dei due fratelli più piccoli è avvenuta nella bottega di suo fratello Giulio, seguace di una scuola emiliana Raffaella: Antonio Campi invece, importerà nella città un dipinto influenzato, così come lo stile del fratello, da un particolare attenzione ai modelli di Camillo Boccaccino e Parmigianino.

Vincenzo Campi, il più giovane dei tre fratelli, è stato colui che ha sviluppato lo stile più singolare tra tutti: l’uso casuale di effetti luministici e una maggiore attenzione alla pittura naturalistica a volte lo fanno etichettare come un esponente del “precaravagismo”. Oltre alle fruttuose collaborazioni con i fratelli, Vincenzo è anche noto per avventurarsi nella pittura di genere, come nelle opere dei Pescivendoli o Pollivendoli, che combina un dipinto ispirato alla tradizione fiamminga di Pieter Aertsen e Joachim Beuckelaer con un occhio di riguardo ogni dettaglio della scena tipica del naturalismo lombardo

La Crema Giovanni da Monte, ancora legata alla scuola di Cremona, debuttò a Milano nella chiesa di Santa Maria a San Celso di ritorno da un soggiorno a Vilnius e Venezia con l’opera della Risurrezione di Cristo, per poi passare ai fratelli Campi. Avventurandosi in varie attività come disegni per apparati effimeri, viene ricordato a Milano per le porte d’organo della Basilica di San Nazaro con i Santi Nazario e Celso in cui fonde tutti gli elementi nordici, veneti e lombardi appresi nella sua esperienza di un pittore [125].

Simone Peterzano era di scuola veneta, che fece il suo debutto a Milano nella decorazione della chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore e alcune tele per la chiesa di San Barnaba, dove il suo primo stile è ancora vivo, dato dall’allenamento i modelli veneziani di Tintoretto, Veronese e Tiziano, il suo maestro. Al suo arrivo a Milano mostrò subito l’adesione ai modelli di pittura mitigati secondo lo spirito della Controriforma, come nel ciclo per l’abside della Certosa di Garegnano dove i frati incaricati stabilivano sia i soggetti che il modo di dipingere , o nella Deposizione ora nella chiesa di San Fedele, dove il pittore veneziano mostra anche una certa adesione ai modelli di naturalismo tipici di Savoldo: il Peterzano è anche famoso per essere il maestro di Caravaggio, che sfruttò anche la Deposizione del maestro nella stesura del soggetto madesimo ora conservato nella Pinacoteca Vaticana. Il coinvolgimento nella diffusione dell’arte controriformata è testimoniato anche dalle collaborazioni con Pellegrino Tibaldi, artista preferito di Borromeo.

Ottavio Semino, pittore di origine genovese, prima di arrivare a Milano per eseguire le decorazioni di Palazzo Marino si formò nell’esperienza genovese di Perin del Vaga, Giulio Romano e Raffaello che studiarono in un viaggio a Roma. Dopo la decorazione di Palazzo Marino, dove arrivò grazie alla chiamata del commissario del palazzo, ottenne varie posizioni tra cui cicli di affreschi per la cappella di San Gerolamo e la cappella di Brasca nella chiesa di Sant’Angelo: curiosamente nel il contratto di lavoro nell’ultima cappella fu specificato in quanto il risultato avrebbe dovuto essere almeno uguale a quello di Giovanni Paolo Lomazzo nella cappella Foppa a San Marco. Sebbene Ottavio Semino fosse considerato tra i migliori pittori della scena milanese, la critica contemporanea giudica invece l’opera deludente e ovvia per l’ossessiva adesione ai modelli raffaelleschi: tuttavia grazie a questa fama il Semino ottiene numerosi incarichi, tra cui gli affreschi del Storie di San Giovanni Battista nella chiesa di Santa Maria delle Grazie.

Arte decorativa
Già agli inizi del Rinascimento gli artigiani milanesi erano tra i più apprezzati in Europa, tuttavia il massimo splendore delle arti decorative nella città avvenne nel primo dominio spagnolo. Uno dei settori principali dell’artigianato milanese era l’armatura, la cui fattura superava di gran lunga quella di altri produttori europei. La fama degli armaioli milanesi era tale che le loro opere erano considerate un vero e proprio status symbol tra la nobiltà di tutta l’Europa, nonostante altri stati stranieri avessero fondato i loro negozi, come ad Innsbruck, Augusta o Greenwich; tra i migliori artigiani della seconda metà del secolo ricordiamo Lucio Marlianisaid, il Piccinino e Giovanni Battista Panzeri detto lo Zarabaglia, entrambi appartenenti a note famiglie di armaioli.

Più in generale, i prodotti artigianali milanesi dell’epoca fornivano molti wunderkammer di sovrani europei con oggetti di lusso di vario genere. A partire dagli anni ’30 si consolidarono la produzione di cammei, l’intaglio di pietre preziose e la lavorazione del cristallo di rocca: i prodotti erano stoviglie e attrezzature, altri mobili da tavolo, tazze, anfore, oggetti liturgici, oltre ai già citati cammei e intagli. Persino questi oggetti, come l’armatura, erano considerati della migliore qualità: non era raro che le grandi famiglie nobili o le corti europee commissionassero opere di negozi milanesi a regalare sovrani, parenti o amici.

Gli iniziatori di questa tradizione furono i fratelli Gaspare e Gerolamo Miseroni, che con la loro bottega erano i fornitori, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, di Massimiliano II d’Asburgo, Cosimo I de ‘Medici e Gonzaga.

Al laboratorio dei Miseroni ci sono molti ritratti di medaglioni di cristallo della collezione di Rodolfo II d’Asburgo, compresi quelli di Ottavio Miseroni, inventore tuttavia della tecnica del “commesso” su cammei, che in virtù delle numerose commissioni dell’imperatore impiantato un negozio a Praga.

Un’altra famosa famiglia di intagliatori fu la famiglia Scala: dagli anni settanta ebbe tra i principali mecenati i duchi di Baviera da Alberto V di Baviera, i Gonzaga e la Savoia. Tra le varie opere della famiglia, un globo di cristallo di sessanta centimetri di diametro, inciso con la forma del regno di Spagna e decorazioni in oro, eseguito per Guglielmo V di Baviera, è menzionato nel testamento di Pompeo Leoni. All’interno della vasta collezione dei duchi di Baviera ci sono anche molte opere di Annibale Fontana a cui la Scala talvolta ispirò, come la cassetta per Alberto V con incisioni di lastre di cristallo incise dell’Antico Testamento e decorate con pietre preziose come lapislazzuli, rubini e smeraldi , così come gli smalti d’oro. Al Fontana lavora anche esclusivamente in cristallo come il vaso con la Storia di Jason (Tesoro della Residenza, Monaco) e il vaso con Storie di Proserpina (Kunsthistorisches Museum, Vienna).

Ancora una volta, le famiglie milanesi di artisti devono aggiungere il laboratorio Saracchi, che ha anche preso possesso dei disegni di Annibale Fontana a causa del suo matrimonio con Ippolita Saracchi, sorella dei fondatori del laboratorio. Attivi soprattutto per i clienti di Alberto II di Baviera, i saraceni si sono dedicati in particolare agli oggetti da tavola, così come l’arte glittale canonica: tra gli esempi più famosi possiamo trovare il tavolo Galley con storie intagliate della tradizione biblica e classica (Tesoro della Residenza, Monaco) o la fontana da tavolo in cristallo, oro smaltato, gemme e cammei, commissionati per le nozze di Ferdinando I de ‘Medici con Cristina di Lorena (Museo degli Argenti, Firenze). Particolarmente apprezzati per la lavorazione di pietre cristalline e dure, i Saracini hanno avuto l’opportunità di cimentarsi nei campi più bizzarri, come il diaspro zoomorfo jasper per i Gonzaga, incluso nella grande collezione della “zoielera”: tra i altri mecenati furono anche Filippo II di Spagna, Rodolfo II d’Asburgo e Savoia.

Insieme a cristalli, pietre preziose e oro, la lavorazione di legni pregiati come l’ebano, l’avorio, particolarmente utilizzato per decorare scatole, e il guscio di tartaruga era comune anche a Milano. Data la fragilità di questo ultimo materiale, pochissimi esemplari rimangono in circolazione; tuttavia, ci sono ampie descrizioni nei cataloghi delle vecchie collezioni di sovrani europei: nel lavoro dell’avorio ricordiamo Giuseppe Guzzi, allievo di Cristoforo Sant’Agostino o lo scultore del coro ligneo di San Vittore al Corpo, che fornì un legno e avorio scrivania a Rodolfo II, e ha avuto diverse collaborazioni con i Miseroni e con gli Arcimboldi.

Uscendo dagli oggetti della wunderkammer, nella città si svolse anche l’attività di ricamo, che dal 1560 ebbe un successo particolare grazie all’opera di Scipione Delfinone, la più famosa tra le ricamatrici milanesi insieme a Camillo Pusterla, con il quale si avventurò nell’esecuzione della bandiera di Milano su un progetto di Giuseppe Meda. Il laboratorio del Delfinone (o Delfinoni) fu commissionato dallo Stuart e dal Tudor d’Inghilterra. Particolarmente attivo nella città fu poi la corporazione delle ricamatrici, che comprendeva l’iscrizione esclusivamente di lavoratrici, tra cui Caterina Cantona, che lavorò su commissione di Cristina di Lorena e Caterina d’Austria, ed è ricordata anche nelle Rime del Lomazzo. In ogni caso, ogni attività nel settore dell’abbigliamento di lusso, oltre ad accessori come guanti e cappelli, era presente in città. L’importanza di questo settore manifatturiero ha spinto i legislatori a introdurre norme sull’abbigliamento e la decorazione delle donne: sebbene l’intento dichiarato fosse la diffusione di un abbigliamento più sobrio e per impedire alle famiglie di spendere troppo, il vero obiettivo era favorire i produttori locali, detrimento di decorazioni come pennacchi e pizzi importati da Genova e Venezia.

Al culmine della loro fama, la maggior parte delle famiglie di artigiani milanesi si offrì di trasferire il loro negozio in varie città, di solito al tribunale prescelto: è il caso del suddetto Ottavio Miseroni, che trasferì il suo laboratorio a Praga su richiesta di Rodolfo II, oi laboratori delle famiglie Caroni e Gaffuri che, sull’offerta della famiglia Medici, trasferirono la loro attività a Firenze; era anche consuetudine trasferirsi temporaneamente in tribunale, come Michele Scala, che lavorò per circa un anno a Mantova per i Gonzaga o per i brevissimi soggiorni dei Sarac a Monaco. Le fabbriche milanesi furono comunque fortunate nella prima metà del Seicento: il loro fine è spesso identificato con la grande peste manzoni a Milano o con il sacco di Mantova: le grandi collezioni ducali furono in parte acquistate da Carlo I d’Inghilterra qualche anno prima sacco, “svenduto” dai duchi di Mantova per far fronte ai problemi finanziari della famiglia, e poi distrutto o disperso dalle truppe tedesche che invasero la città.

L’Accademia dei Facchini della Val di Blenio
Per concludere la discussione sulla situazione artistica milanese della fine del sedicesimo secolo, vale la pena di dire alcune parole su un fenomeno di lunga data come marginale e underground, rivalutato solo dall’ultimo decennio del XX secolo, che ha permesso di classificare il esperienza di “Rabisch”, come venivano anche chiamati aderenti al gruppo, come un fenomeno parallelo all’arte controriformata dell’epoca a cui possiamo riferirci come “classicismo alternativo”. La rivalutazione ha fatto sì che l’accademia passasse da un ruolo meramente goliardico e ricreativo a un movimento culturale che con la sua “attitudine anti-intellettualistica” e l’idea di arte “come creazione gratuita” scapillatura.

Sebbene difficile da definire con precisione e da inquadrare all’interno di una singola attività, l’Accademia dei Facchini della Val di Blenio era attiva a partire dalla seconda metà del secolo a Milano, come un gruppo di personalità desiderose di uscire dagli schemi culturali diffuso dal cardinale Borromeo. Il lavoro del gruppo era vario quanto i suoi membri, rigorosamente in segreto: l’anima e “abate” dell’ordine era Giovanni Paolo Lomazzo, che si dedicò a quasi tutte le attività dell’ordine, compresa la pittura, la caricatura, la poesia, la composizione la raccolta dialettale dei versi del Rabisch. Tra gli altri membri più attivi troviamo Pirro Visconti Borromeo, nobile protettore dell’ordine, l’incisore Ambrogio Brambilla e “gran cancelliere della valle”, i pittori Giuseppe Arcimboldi, Aurelio Luini, Ottavio Semino, Paolo Camillo Landriani, lo scultore Annibale Fontana e infine l’editore fiammingo Nicolas van Aelst.

Le attività del gruppo, quindi, spaziavano da disegni e caricature del patrimonio leonardesco dal gusto della pittura grottesca a quella del genere; dalle monete distribuite ai membri del gruppo, alle poesie in un dialetto basato sul Bleniense: una sorta di milanese rustico parlato nelle valli del Cantone dei Grigioni, a cui sono stati aggiunti prestiti da varie lingue dell’epoca, tra cui spagnoli, toscani e Genovese. Le composizioni spesso sfociarono in ridicolo se non in volgare: per questo motivo l’associazione rimase segreta in un periodo in cui il controllo della Chiesa sulla moralità pubblica arrivò al punto di negare all’Aselio Luini associato l’esercizio della pittura in città da parte di ordina come l’arcivescovo.

Alcuni dei documenti attribuibili all’accademia ci permettono di descrivere alcuni dei costumi del gruppo. Il più famoso è sicuramente l’autoritratto come abate dell’Accademia della Val di Blenio del Lomazzo, dove il pittore si riproduce con una pelliccia e un cappello di paglia appuntato con il sigillo dell’Accademia, probabilmente creato da Annibale Fontana, raffigurante un scatola di vino con foglie di edera e vite, simbolo di Bacco, il tema centrale dell’accademia nel riprendere la credenza aristotelica dell’associazione di creatività artistica con ubriachezza del vino. Non è certo se i membri debbano effettivamente vestirsi nel modo illustrato dal dipinto, ma durante gli incontri era obbligatorio esprimersi nel dialetto Bleniense; la lingua in cui è stato svolto l’esame di ammissione, che comprendeva una serie di domande sugli usi e costumi dei brentatori o sugli antichi trasportatori del vino ticinese.

Quindi l’accademia non mancava della componente scherzosa e scherzosa fine a se stessa, ma sarebbe sbagliato classificarla solo come tale: nei sonetti di Lomazzo, oltre ai doppi sensi e canzonature, si possono trovare elementi importanti di critica sociale verso il rigide politiche del Borromeo, oltre a riferimenti alle opere di Pietro Aretino e Luciano di Samosata. Un attacco all’umanesimo si trova in caricature che distorcono e deformano il corpo umano, al centro della cultura umanistica rinascimentale con la sua perfezione, mentre nella stessa vena si possono inserire i dipinti dell’Arcimboldo raffiguranti figure umane composte da vegetali, che però sfuggono in definitiva per gli scopi dell’Accademia a causa della simbologia classica a cui il pittore ha dovuto sottostare ai potenti commissari. Concludendo quindi l’analisi di questo gruppo bizzarro ed eclettico di artisti, si può dire che la chiave del gruppo era di gettarsi contro il cuore dell’arte riformata, cioè contro modelli e regole fisse che porterebbero a composizioni ortodosse di cui non è stato possibile uscire, per dirlo con le parole di Francesco Porzio, attraverso “.